“Un grande imbarazzo per me e per tutti i cittadini americani”. Così Donald Trump ha definito il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare iraniano sottoscritto nel 2015 da Cina, Stati Uniti, Russia, Iran e Unione Europea, poco prima di annunciare la fuoriuscita di Washington. Ora l’Europa si trova in bilico. Da una parte l’Alleanza atlantica, che non può e non deve vacillare. Dall’altra Teheran, che per bocca di Hassan Rohani fa sapere di esser pronta a riprendere l’arricchimento dell’uranio qualora i negoziati dovessero saltare del tutto. Forse c’è un piano B per rimanere in equilibrio, ma servirà un nuovo, delicato lavoro di diplomazia europea. Ne è convinta Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), intervistata da Formiche.net per cercare di cogliere il vero messaggio lanciato dal presidente americano.
Nathalie Tocci, si aspettava una fuoriuscita così netta degli Stati Uniti dal Jcpoa?
Diciamo che si prospettavano due scenari: uno soft e uno tough. Nel primo caso Trump sarebbe potuto uscire dall’accordo posticipando le sanzioni, dando altri due, tre mesi di tempo agli europei, che li avrebbero accettati volentieri. Gli alleati infatti avrebbero preferito non trovarsi a scegliere fra l’Alleanza atlantica e il Jcpoa. Trump ha optato per la fuoriuscita dura, con l’immediata riattivazione delle sanzioni, e forse questo è stato il male minore, perché permette subito ai firmatari dell’accordo di prendere le misure.
Davvero questo accordo ha un futuro senza gli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti non sono mai davvero entrati nell’accordo. Su questo l’Iran ha ragione: di fatto gli americani non hanno mai sospeso le sanzioni, neanche durante l’ultimo anno di Barack Obama alla Casa Bianca. Basta pensare al settore bancario. Perché molte delle aziende italiane hanno remore a investire in Iran? Perché sono legate a doppio filo al sistema bancario americano, e temono che i loro asset negli Stati Uniti vengano congelati di conseguenza.
Teheran non ha perso tempo e ha fatto sapere che intende tenere in vita il Jcpoa. Come possono gli europei tener fede agli accordi dopo lo strappo di Washington?
Gli iraniani hanno tutto l’interesse a che gli europei implementino la loro parte del Jcpoa. Ci sono diverse misure con cui l’Europa può tenere fede all’accordo, anche a livello dei singoli Stati. In Italia il ministero dello Sviluppo Economico ha attivato una linea di credito per le aziende italiane che legittimamente vogliono fare business in Iran. Non escludo che all’interno del prossimo quadro finanziario pluriennale si possano immaginare delle linee di credito europee, o addirittura una nuova blocking regulation che penalizzi le imprese europee che aderiscono alle sanzioni extraterritoriali americane, come avvenne sul finire degli anni ’90 con la Libia.
Trump però ha fatto intendere chiaramente che gli alleati saranno sotto stretta osservazione nei prossimi mesi.
La difficoltà maggiore sarà proprio questa: reagire senza danneggiare ulteriormente i rapporti transatlantici, già deteriorati dalle minacce di una guerra commerciale con l’Europa. Serve ora un grande lavoro di diplomazia europea. Se l’Iran è parte del problema, deve essere necessariamente anche parte della soluzione. Il Jcpoa può essere una piattaforma per intavolare una discussione su altre questioni regionali che prescindono dal nucleare, come il programma missilistico o la guerra in Siria.
Come previsto i leader europei hanno reagito subito prendendo le distanze dalla decisione di Trump. Macron però ha usato toni più blandi, lasciando aperta la possibilità di una rinegoziazione che includa anche il programma missilistico di Teheran.
Non mi sorprende affatto. Nell’era Obama all’interno del gruppo 5 +1 l’hardliner era la Francia, non gli Stati Uniti. Sono molto scettica che una rinegoziazione che faccia leva sulla missilistica iraniana possa portare a qualche risultato. L’Iran non ha nessuna intenzione di rinunciare al suo programma missilistico, questo è un tema che tocca corde profonde del Paese. Gli iraniani lo considerano un pilastro della sicurezza nazionale e un potente strumento di deterrenza, memori dei missili iracheni che hanno annientato il Paese negli anni ’90.
Chi era secondo lei il vero target dell’annuncio di Trump: gli israeliani o i sauditi?
Il messaggio di Trump era rivolto più a Tel Aviv che a Rihad. L’Arabia Saudita non è mai stata fan dell’accordo sul nucleare iraniano, ha sempre avvisato Obama che non avrebbe portato a un alleggerimento delle ingerenze iraniane in Medio Oriente, ma non ha mai chiesto a Trump di uscire dal Jcpoa. Israele invece lo ha chiesto in maniera molto chiara, le slides di Nethanyahu sono solo l’ultimo appello pubblico rivolto a Washington.
Trump ha inviato un messaggio direttamente alla popolazione iraniana. Non è la prima volta, lo ha fatto anche con i nordcoreani. Per l’Iran gli Stati Uniti hanno davvero un piano di regime change?
Ci ritroviamo di fronte alla stessa identica narrativa del 2002, all’epoca rivolta all’Iraq di Saddam Hussein: l’asse del male, l’effetto domino, gli appelli alla popolazione, il regime change. Speriamo che questa volta Washington non passi dalle parole ai fatti, un attacco diretto sarebbe un disastro. Purtroppo il crescendo di tensioni fra Israele e Iran in Siria rende lo scenario di una guerra regionale sempre più plausibile.