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Incompletezza, inquietudine, immaginazione. E Bergoglio rilancia il vivere insieme

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Il 9 febbraio del 2017, quando Papa Francesco ha ricevuto il collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica per ricordargli l’importanza di “inquietudine”, “incompletezza” e “immaginazione”, è un giorno da ricordare e legare al 6 agosto del 1964, quando Paolo VI firmò l’enciclica Ecclesiam Suam e al 25 ottobre 1965, quando lo stesso insieme ai padri conciliari diede alle stampe la dichiarazione Nostra Aetate. Infatti il discorso del 9 febbraio e di cui il libro Solo l’inquietudine dà pace. Così Bergoglio rilancia il vivere insieme, cerca di dare una lettura il più complessiva possibile, aiuta, chiunque voglia farlo, a capire come lavorare per l’armonia tra le civiltà.

Quel 9 febbraio, raccomandando ai suoi scrittori inquietudine, incompletezza del pensiero e immaginazione, Francesco, non per caso il primo Papa che viene dal Sud del mondo, ha affiancato questa preziosa indicazione metodologica alla dichiarazione conciliare “Nostra Aetate”, quella che indica attenzione e amicizia per l’ebraismo e le altri grandi religioni e alla prima enciclica  di Paolo VI , il primo atto pontificio che ha recepito l’urgenza di una Chiesa Mondo, che richiede il dialogo con le altre religioni e culture, abbandonando l’idea che vedeva solo falsità fuori dal cattolicesimo, e che questo pontificato ha saputo accompagnare con il ruolo che ha assegnato alle periferie, a tutte le periferie.

Questo libro dunque analizza un discorso di particolare rilievo tanto da costituire  il prezioso supporto metodologico, adeguato alle sfide dei tempi, per chiunque voglia lavorare per l’armonia e non per lo scontro di civiltà. Questo discorso ci fa capire anche lo speciale rapporto tra Francesco e Paolo VI, la sua prima enciclica, nella quale si afferma che la “Chiesa si fa dialogo” e che “deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere”. È così possiamo dire che lo scontro di civiltà si fonda sul pensiero completo, sulla rinuncia all’immaginazione e sul contenimento dell’inquietudine dell’animo, mentre il paradigma metodologico definito da Francesco in tre parole, “inquietudine, incompletezza, immaginazione”, ci spiega che il mondo dei costruttori di ponti ci affranca da un’illusione: il mondo non è in bianco e nero.solo l'inquietudine dà pace

Questo paradigma metodologico infatti ci aiuta a comprendere come si possano vedere i grigi, dato che se non impareremo a farlo, lentamente, diventeremo ciechi. Soltanto la consapevolezza dell’incompletezza del nostro pensiero può aiutarci a vederli anche in noi stessi, visto che tutti avvertiamo il desiderio (e il bisogno) della vita come fluire e della vita come stabilità; soltanto l’inquietudine può aiutarci a rimanere fratelli e soltanto l’immaginazione può portarci oltre i nostri confini. Francesco sa che le contrapposizioni ci appartengono, per questo potremmo e dovremmo andare sempre avanti. È un passo di grande importanza quello che la Chiesa che si fa dialogo o colloquio ha compiuto il 7 febbraio 2017, acquisendo un suo metodo e un paradigma. E un passo importante sulla via della realizzazione della Chiesa Mondo è stato fatto con la decisione di tradurre e pubblicare in tante lingue, tra le quali il coreano, proprio La Civiltà Cattolica.

Sottolineando l’importanza di permanere inquieti, capaci di immaginare e consapevoli dell’incompletezza del nostro pensiero, Jorge Mario Bergoglio, dopo essersi speso per una geopolitica della misericordia, con questo discorso  ha dato un nuovo strumento metodologico ai costruttori di ponti, alla costruzione dell’ordine della società del vivere insieme,  che non sostituisce la realtà con la sua rappresentazione: il disordine ideologico dello scontro di civiltà è il contrario della civiltà cattolica, non a caso il nome della rivista i cui redattori sono i destinatari di questo cruciale discorso.

Consapevole che quello della secolarizzazione è un problema principalmente occidentale, Bergoglio per realizzare  la Chiesa Mondo ha saputo cogliere che l’urgenza comune per l’umanità d’oggi, più che contrastare la secolarizzazione, problema soprattutto occidentale, è quella di un cambio di rotta della globalizzazione, trovando così un linguaggio comune con tutti i suoi contemporanei ed evitando anche le pericolose derive del localismo identitarista, nelle quali alcuni alcuni suoi critici non potevano che rimanere incagliati. Ecco come mai ha voluto definire il problema cruciale e globale di questo nostro tempo proprio durante la sua visita nel per noi remoto Chiapas, avvertendoci da lì che siamo “esposti a una cultura che tenta di sopprimere tutte le ricchezze e le caratteristiche culturali inseguendo un mondo omogeneo”.

Ma esiste il mondo omogeneo? Certo che esiste, è quello dei centri commerciali, ovunque gli stessi, ovunque provvisti degli stessi prodotti. È anche quello delle mono-colture, capaci di fare dell’Amazzonia un enorme piantagione di mais, o un pascolo per bovini McDonald’s. Ma questo mondo omogeneo è anche il mondo sognato dai localisti che erigono muri e hanno paura dell’altro, chiudendosi in uno spazio di uguali circondato dal muro che loro stessi hanno eretto. Questo scontro tra globalizzazione uniformante o localismi identitari la Evangelii Gaudium lo ha raccontato con parole poetiche, vedendo da una parte un estremismo che ci vuole “passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati” e dall’altra un estremismo che propone un “museo folkloristico di eremiti localisti, condannati sempre a ripetere le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso  e incapaci di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini”. Tutti gli identitarismi, come la globalizzazione uniformante, non possono corrispondere a Bergoglio che, come Sant’Ignazio e San Pietro Favre, compagno di Sant’Ignazio, vede sbocciare la presenza di Dio dovunque nel mondo, perché la creatività dello Spirito è ovunque nella diversità delle sue culture e nella varietà delle sue esperienze. Nella prima intervista concessa a padre Spadaro, Papa Francesco ha elencato così le qualità del suo gesuita preferito, San Pietro Favre: “Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…”. Dialogo, pietà, ingenuità, disponibilità, discernimento: c’è tutto questo dietro il discorso di cui qui si parla, e tutto questo ne fa  un cardine  meritevole di essere letto partendo dalle aspettative che ha alimentato sin dal giorno in cui è stato pronunciato.

Bisogna soffermarsi a riflettere sulle tre “i” di Francesco prima ancora di sapere come lui sviluppi questa indicazione. Difficile raccomandare agli altri ciò che non ci riguarda: dunque il Papa è inquieto, sa incompleto il suo pensiero, avverte l’esigenza di immaginare. Sono parole pensate anche per includere, o per non escludere, una scelta naturale per Bergoglio ma cruciale in un testo che offre un metodo alla civiltà del dialogo. Queste tre “i” dunque devono poterle leggere e sentirle proprie anche persone che non hanno familiarità, come lui, con i padri della Chiesa.

C’è un videomessaggio di quattro minuti di Papa Francesco relativo a un suo pensiero cruciale, quello della rivoluzione della tenerezza di Dio, che si fa piccolo, umile: in quel breve discorso – quattro minuti equivalgono a una cinquantina di righe – l’espressione “l’altro” – o “gli altri”- ricorre dieci volte…  È evidente come queste parole siano state scelte con cura, come tutte le parole scelte da quest’uomo che quando parla non impone, ma suggerisce, interroga, propone. Non poteva che fare altrettanto in un discorso che definisce il metodo della civiltà del dialogo e del vivere insieme aiutandoci a desumere il metodo inverso dell’inciviltà dello scontro di civiltà. Tenerne conto ci consentirà l’approccio giusto per arrivare al senso di questo discorso sulla  missione degli scrittori del Papa, che, nella sua ottica, è una missione che può essere capita e in piccolo condivisa da tutti noi, cioè da tutti gli altri, da coloro che almeno per un momento nel corso di una giornata sanno di essere chiamati a sorprendersi in questo tempo, che è il nostro tempo. Uno dei destinatari di questo discorso ci insegna cosa sia l’inquietudine con la sua agenda: è un intellettuale, un redattore della più importante rivista cattolica, ma una volta a settimana impegna il suo tempo chiacchierando per qualche ora con i richiedenti asilo, nei seminterrati dove consumano un pasto caldo. Lo so per caso, non certo da lui, che ritiene normale avvicinarsi al mondo e immaginare i suoi interlocutori dopo che li ha salutati, mentre rientrano nelle viscere inquiete della metropoli. Dobbiamo entrare per un momento nel testo, per seguire questo filo. L’inquietudine di Francesco è l’inquietudine di  Sant’Agostino. Per qualche lettore, che non ha studiato i padri della Chiesa, l’inquietudine di Jorge Mario Bergoglio rimanderà a Seneca, che nella Tranquillità dell’animo ha scritto: “Noi con animo grande non ci siamo voluti chiudere nelle mura di una sola città, ma ci siamo aperti alla relazione con tutto il mondo e abbiamo affermato di avere il mondo come patria, perché fosse possibile offrire alla virtù un campo più vasto.” A qualcun altro poi l’inquietudine di Papa Francesco parlerà di Cartesio, visto che il celebre  cogito ergo sum che ha reso noto nei secoli questo ex studente dei gesuiti non parla soltanto di pensiero, ma anche di co-agitazione, ossia dell’inquietudine della coscienza. Per un altro ancora l’inquietudine di Papa Francesco ricorderà Fernando Pessoa: “ Oggi ho subito un’amputazione. Non sono più esattamente lo stesso. Il fattorino dell’ufficio è partito. Tutto quanto succede nel dove in cui viviamo, succede a noi. Tutto quanto cessa in ciò che vediamo, cessa in noi. Tutto ciò che è stato, se lo abbiamo visto quando era, quando se ne va è tolto da dentro di noi. Il fattorino dell’ufficio è partito”.

L’ inquietudine di Bergoglio non è letteratura, non esce dal libro insonne di Rua dos Douradores,  ma visto che lui ama la poesia e la letteratura, sa non escludere e costruire  un linguaggio comune. Sbirciamo di nuovo nel testo. Bergoglio vi parla di Spirito Santo. Ma se invece di incompletezza del pensiero avesse scelto di raccomandare devozione allo Spirito Santo, che è l’armonia, avrebbe altrettanto incluso, attratto, interessato? Così invece lo Spirito Santo si è avvicinato anche a chi non frequenta la teologia. E si è allontanata davvero la pretesa di un pensiero completo. Chi ha già tutto,  chi esclude che anche gli altri possono sapere qualcosa, non immagina…  e cancella così anche il fattorino dell’ufficio di Pessoa, che non gli serve.

Dunque siamo davanti a un discorso epocale e globale, che spiega il cattolicesimo parlando all’uomo moderno, indicando la strada per dare finalmente un’anima alla globalizzazione. Un’etica globale ci chiede di riconoscere il leader morale globale e di assumere il suo metodo, inquietudine, incompletezza, immaginazione e quindi il coraggio di andare lontani da porti sicuri.



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