Nell’auspicare ancora una volta che alcuni dei più autorevoli protagonisti coinvolti nelle complesse e ormai drammatiche vicende dell’Ilva pongano fine o almeno attenuino lo scambio di reciproche accuse e contumelie giunte nelle ultime ore a livelli non più sostenibili – essendo oltretutto inutili per la risoluzione di un così grave problema per l’industria italiana, e per le città di Taranto, Genova e Novi Ligure – cerchiamo di fare il punto e di avanzare qualche proposta da portare eventualmente sul tavolo di una trattativa che può e deve riprendere subito.
Una domanda preliminare s’impone per fare chiarezza che a questo punto deve essere assoluta: chiediamo formalmente ai tre Commissari dell’IIva – e ci auguriamo che vogliano dare pubblicamente una risposta inequivocabile – se l’assenso dei Sindacati all’operazione di acquisto del Gruppo da parte di AmInvestco sia dirimente o meno. Sino ad alcuni giorni orsono infatti si è affermato che senza il consenso delle Organizzazioni sindacali l’intera operazione non avrebbe avuto corso; ieri invece, dopo la rottura al Mise, abbiamo letto che Arcelor potrebbe procedere ugualmente all’acquisto, anche senza il consenso dei Sindacati. O almeno così abbiamo compreso. Ci siamo sbagliati? Ci si può dare allora una risposta inequivocabile su questo aspetto che a noi – e non solo a noi – appare fondamentale e non più eludibile?
Veniamo al merito delle proposte in materia di occupazione e di inquadramenti da parte di Arcelor: 10mila addetti subito, con una perdita secca di 4.000 unità, di cui 3.331 a Taranto, con contratto a tempo indeterminato, con l’art.18 e il mantenimento delle condizioni maturate in Ilva, per scendere poi a regime nel 2024 a 8.500 persone. Il ministro Calenda ha proposto inoltre che altri 1.500 lavoratori vengano assunti con le stesse garanzie in una società costituita da Invitalia, che ne avrebbe il controllo, e dall’Ilva in amministrazione straordinaria per svolgere non meglio precisati lavori commissionati da parte di chi acquista l’Ilva. Per i restanti 2.400 addetti in esubero il piano messo a punto dal Ministro prevederebbe che rimangano in capo all’Amministrazione straordinaria, beneficiando in un incentivo all’esodo fino a 100mila euro e di 5 anni di cassa integrazione.
Allora Arcelor deve spiegare bene e finalmente con assoluta chiarezza ai sindacati, ai parlamentari e a tutti gli osservatori che seguono da vicino tecnicamente l’andamento della vertenza “come sia possibile” – lo ha rilevato giustamente Rocco Palombella, segretario nazionale della Uilm – “partire con 10mila addetti e 5 milioni di tonnellate a arrivare a fine piano con 8.500 addetti e 9,5 milioni di tonnellate”. La difesa degli attuali livelli occupazionali, pertanto, soprattutto nel sito di Taranto non è solo un esercizio di fermezza (irragionevole) dei sindacalisti, ma nasce da una attenta considerazione del rapporto fra produzione ipotizzata e numero di addetti che vi sarebbero impegnati. Riva in alcuni anni – ad esempio nel 2005, nel 2006 e nel 2007 – portò lo stabilimento a raggiungere anche la soglia dei 9,3 milioni di tonnellate nel 2005, di 10,2 milioni nel 2006. e di 9.9 milioni nel 2007, impiegando oltre 12.000 addetti a tempo indeterminato, e con buoni margini di redditività.
Allora, si possono discutere a fondo e in sedute anche non stop i volumi di produzione ipotizzati dal momento del subentro in azienda di Arcelor e sino al 2024, fra quelli della ghisa e quelli delle bramme che si dice di voler portare da altri siti, sin quando il completamento dei lavori dell’Aia non consentirà di superare i sei milioni di acciaio colato?
Le proposte del ministro Calenda rappresentano uno sforzo per noi apprezzabile di contribuire alla soluzione di un problema occupazionale di grande rilievo, ma è a monte che i sindacati non sono convinti del piano industriale e occupazionale di Arcelor: e, aggiungiamo noi, non ne sono convinti gli operai, i tecnici, i quadri e i dirigenti tarantini dell’Ilva che di produzione di acciaio se ne intendono, lavorando nel più grande impianto siderurgico a ciclo integrale d’Europa, e che devono essere pienamente convinti anch’essi di ciò che si discute insieme ai loro Sindacalisti.
Alcune domande poi suscita la proposta di costituzione di una newco controllata da Invitalia e partecipata dall’Ilva che dovrebbe assumere 1.500 unità. Come si dividerebbero quelle unità fra Taranto, Genova e Novi Ligure che sono le fabbriche maggiori del Gruppo? O riguarderebbero solo gli addetti dell’impianto ionico? E quali lavorazioni eseguirebbero e per conto di chi? E le imprese dell’indotto e i loro dipendenti – oggi impegnati in molte delle attività che presumibilmente sarebbero in toto o in parte trasferite alla nuova società – che fine farebbero? E perché non si parla mai delle imprese dell’indotto, soprattutto di quelle di Taranto e del loro futuro?
Ora, nell’affermare quanto abbiamo appena detto non intendiamo in alcun modo sostenere che l’intero assetto di marcia del siderurgico debba restare immutato, così come il complesso rapporto fra il grande impianto e la supply chain del suo indotto. Assolutamente no. Intendiamo dire ben altro. E cioè che la questione della fabbrica di Taranto – che è, non lo si dimentichi mai, la più grande manifatturiera d’Italia per numero di addetti – e dei suoi livelli occupazionali presenti e futuri e soprattutto il problema della ricollocazione di eventuali esuberi devono essere affrontati, a nostro avviso, mettendo a punto un disegno di politica industriale concentrata nell’area ionica che impegni anche, se del caso Invitalia, ma in primo luogo altre grandi società a controllo pubblico come Eni, Fincantieri, Leonardo Divisione aerostrutture, Enel, Ferrovie dello Stato italiane.
Le aziende dell’indotto a loro volta – alcune delle quali hanno già avviato percorsi di diversificazione della clientela – devono essere supportate da Istituzioni pubbliche nell’ampliamento del loro mercato, sempre al di fuori di logiche di assistenza: su questo aspetto non possono esserci dubbi o equivoci di sorta. Ma riteniamo soprattutto che la questione della ricollocazione di eventuali esuberi debba essere portata in capo alla Presidenza del Consiglio, come – è bene che tutti lo ricordino – accadde fra il 1975 e il 1977 al tempo della prima grande “vertenza Taranto” – quando uscirono dal perimetro della fabbrica 6mila fra meccanici ed edili una volta terminati i lavori del suo “raddoppio” – e poi nel 1987-88 ai tempi dell’Operazione integrata Taranto quando uscirono 4mila addetti dal siderurgico e l’operazione venne avanzata al Governo dal Presidente della Regione Salvatore Fitto, con un preciso e ricco piano di iniziative. In quella occasione venne approvata anche la legge 181 per la reindustrializzazione delle aree siderurgiche interessate dalla crisi del comparto.
Creare sacche di lavoratori in qualche modo garantiti che finirebbero però con l’essere assistiti – per quanto lodevole sia l’intenzione del Ministro – non è a nostro avviso la soluzione migliore. Decisamente no. Invece si potrebbe partire come base di proposte possibili per un ampliamento qualificato della base industriale ionica – e sempre al servizio però dell’intera economia nazionale – da quanto contenuto nel Piano di sviluppo strategico della ZES-Zona economica speciale ionica che unisce aree della Puglia e della Basilicata. Chi scrive ha redatto su incarico della Regione e con altri tecnici quel Piano che contiene molte proposte anche di dettaglio merceologico sui settori manifatturieri e di servizi che si potrebbero avviare o potenziare su Taranto e nei territori del suo hinterland inseriti nella ZES, riassorbendo eventuali esuberi dell’Ilva ed anche tante altre unità lavorative. La Regione ora ha ricevuto lo studio che deve presentare al Governo per l’istituzione della ZES e potrebbe proporlo come base di confronto, ma al livello di presidenza del Consiglio e senza che il Ministro dello Sviluppo in carica o da nominarsi prossimamente si senta scavalcato e se ne adonti, perché il coordinamento di un grande programma industriale sull’area ionica non può che avvenire a livello di Presidenza del Consiglio.
Un’ultima considerazione per coloro che propongono la dismissione sia pure graduale dello stabilimento. Sarebbe una catastrofe per l’economia cittadina, provinciale e regionale, ma anche per quella nazionale, come ha sottolineato il ministro Padoan, e come sanno tutti non certo mitigabile con le misure di rilancio cittadino che pure si propongono con apprezzabile impegno. E i miei autorevoli colleghi universitari che sono stati eletti parlamentari del Movimento Cinque Stelle ne sono perfettamente a conoscenza. Allora, se posso permettermi un suggerimento, li inviterei a spendere il loro prestigio accademico per convincere il gruppo dirigente pentastellato che bisognerà spendersi per una diversificazione dell’economia cittadina, peraltro già in corso sia pure parzialmente, ma rilanciando l’Ilva in logiche di piena ecosostenibilità e difendendone la maggiore occupazione possibile.
Siano di monito a tutti ancora una volta le parole dell’Arcivescovo di Taranto Monsignor Raffaele Santoro.