Piccolo, povero, Paese della pur fertile regione dei Grandi Laghi. Confini con Ruanda, Congo e Tanzania. Niente sbocco al mare. In compenso, un profluvio di sfrenata paranoide fantasia, che viene tutta dal poliedrico presidente-dittatore, che domina (schiaccia, si potrebbe dire a tutti gli effetti) il Burundi dal 2005.
L’eclettico Pierre Nkurunziza, 54 anni ben portati grazie al costante esercizio fisico, è docente universitario; pastore evangelico della minuscola Chiesa di Rocher (i natali in Belgio, primi del Novecento) assurta a religione di Stato; è un appassionato calciatore con netta propensione per il goal (la squadra che ha fondato si chiama naturalmente “Alleluja!”) e malcelato odio per i difensori avversari; è già diventato – a furor di legge – per il suo bastonato popolo (il più infelice del mondo, secondo un recente rapporto Onu) “guida eterna e suprema”, e guai a chi non gli si rivolge così. Ma questa girandola di ruoli non gli basta: adesso, proprio oggi – grazie a un referendum-farsa, contrassegnato da irregolarità, violenze e costrizione – “l’unto da Dio” verrà incoronato re e la repubblichetta del Burundi (oltre dieci milioni di anime perse) si trasformerà con un tocco di bacchetta magica nel maestoso “Regno Hutu”, l’etnia tristemente maggioritaria, protagonista della storica vessazione dei “tutsu”, pacifici e tranquilli agricoltori, nel vicino Ruanda vittime di un famigerato, efferato, genocidio. Ma, a “padre” Pierre l’onnivoro, non è sufficiente nemmeno questo. Se l’instaurazione della monarchia é colore e sfarzo (mentre l’80 per cento della gente annaspa penosamente nella poverta più nera), la vera ragione del referendum odierno è ben più sostanziosa. Nkurinziza, fervente predicatore e assieme crudele autocrate, modifica arditamente la Costituzione, che pure c’è o ci sarebbe, e si garantisce la leadership a vita. Niente più limiti al numero dei mandati – lui è al terzo consecutivo – ed estensione della durata degli stessi a sette anni invece degli attuali cinque. In questo modo l’ uomo che ha superato anche l’ aspro scoglio di una sanguinosa guerra civile e – successivamente – di un tentato “golpe” ai suoi danni, governerà- anzi tiranneggerà – il rassegnato e impaurito Burundi fino a data da destinarsi, almeno fino al 2034.
L’opposizione democratica, intendiamoci, esiste. E tenta periodicamente di rialzare la testa. Ma i suoi capi sono stati costretti all’esilio. O, più semplicemente, soppressi. O imprigionati. Dall’epoca della furibonda repressione del fallito colpo di stato – tre anni orsono – alcune migliaia di persone sono state uccise, quattrocentomila almeno i profughi in altri Paesi africani meno truculenti. Pochi giorni fa, in occasione della campagna referendaria, un attivista dei diritti umani è stato condannato a trentadue anni di carcere. L’altra settimana un “commando” di ribelli (o terroristi e basta) ha raso al suolo un villaggio nel nord, ventisei innocenti massacrati. Non parliamo, per ritegno, della “libertà” dei pochi media. Ma Monsieur Pierre é tranquillo. Sulla sua sicurezza e sulla sua, scontata, vittoria vegliano polizia ed esercito e le brigate paramilitari razzial-naziste “Imbonerakure” – emanazione del movimento giovanile del partito al potere – vanno a caccia di potenziali elettori del no al referendum, li minacciano, promettono le manette a chi si astiene, pattugliano – armati fino ai denti – i seggi e non tralasciano di stuprare le donne che manifestano un qualsiasi dissenso. Ma Nkurunziza é inafferrabile per i tribunali internazionali. Da tempo ha decretato l’ uscita del Paese dalla Corte Penale dell’ Aja, che su di lui aveva accumulato un corposo dossier. E le voci della Chiesa, dell’Unione Africana, dell’Europa e degli Usa sono troppo flebili. Burundi, terra disgraziata e a rischio, che non fa gola a nessuno. Terra dimenticata. Una nuova guerra civile è possibile. Ma il mondo, probabilmente, starebbe a guardare. Come è accaduto in passato anche per il “gemello” Ruanda, oggi più progredito e più stabile, perché più appetibile.
(Foto: Pierre Nkurunziza con Manuel Barroso, Commissione europea, 2006)