Poco prima di ricevere la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, rilassato nella tenuta che riserva per i vertici a cui vuole dare un tocco smart, il nuovo presidente russo Vladimir Putin ha approvato il nuovo governo proposto dal nuovo primo ministro Dmitri Medvedev.
Tecnicamente i tre pezzi costituzionali di Mosca sono effettivamente nuovi, in realtà come anche i più disattenti avranno notato, già dai nomi si capisce che almeno due non sono per niente cambiati (la coppia Putin/Medvedev regna da vent’anni, e la disposizione attuale era in piedi già nell’amministrazione precedente).
E allora, visto che durante la campagna elettorale si promettevano riforme, crescita, modernità (insomma, per dirla all’italiana, “cambiamento”) almeno il governo sarà cambiato? No. Nemmeno quello. Nella formazione dell’esecutivo che ha ricevuto l‘imprimatur presidenziale non c’è niente di nuovo, ci sono nomi noti, a tratti notissimi, molti confermati nei propri feudi (almeno in quelli che contano).
“Quasi tutti i candidati sono persone ben conosciute con esperienza e un buon curriculum nei loro precedenti posti di lavoro”, per questo “do la mia approvazione”, ha detto Putin. Ma è lo status quo, non il cambiamento verso la modernità il messaggio che esce dalla lista dei ministri.
Esteri e Difesa restano in mano a Sergei Lavrov e all’omonimo Shoigu: due pezzi da novanta del Cremlino, alleati putiniani di ferro (full disclosure: è una sottolineatura inutile “putiniani”, perché in effetti non si comanda al Cremlino se non si è putinaniani, since 1999, ndr). I due hanno contraddistinto la politica russa negli ultimi anni. Le mosse che hanno ribaltato il mondo contemporaneo, l’annessione crimeana del 2014, l’intervento armato in Siria del 2015, le interferenze alle presidenziali americane del 2016, tappe drastiche della politica estera militare russa, sono state segnate da entrambi i personaggi.
Nemmeno il comparto economico è stato messo sotto cambiamenti, eppure è l’economia l’obiettivo dichiarato di questo quarto governo-Putin. Il ministro delle Finanze resta Maxim Oreshkin (un novellino rispetto agli altri due prima citati, nominato nel 2016 per sopperire all’uscita di Alexei Ulyukaev, arrestato per una tangente intascata nell’affare Rosneft-Bashneft, anche come messaggio secco che Putin aveva voluto mandare all’élite che ne sostiene il potere: o si fa come dico io, o si finisce ai lavori forzati).
Commercio e Industria sempre a Denis Manturov, l’Energia – la grande fonte di proventi statali – ancora sotto la guida di Alexander Novak (che non ha mai smesso di lavorare, tranquillo che nessuno lo avrebbe scalzato dal trono, e nelle settimane in cui Medvedev formava il governo era iper-attivo nei contatti con i colleghi petroliferi per cercare un bilanciamento all’uscita trumpiana dal deal con l’Iran).
Resta pure il il ministro dello Sport, Pavel Kolobkov, nominato nell’ottobre del 2016 al posto di Vitaly Mutko, che fu promosso a vice-primo ministro per sottolineare che Mosca non si sarebbe arresa davanti alle accuse di doping di stato contro il ministero che dirigeva (anzi, il Cremlino premiava l’operato di Mutko e gli faceva fare un balzo in avanti nell’esecutivo; invece nel 2017 il Cio lo ha bannato a vita).
Due ingressi nel settore siloviki – coloro che arrivano in politica passando dal mondo dell’intelligence, categoria ricca nell’amministrazione russa. Nella squadra di governo ufficiale (in quella ufficiosa c’è da tempo) entra Yevgeni Zinichev, ex agente del Kgb e vice direttore dell’Fsb, potentissima ex guardia del corpo personale di Putin, un nome che gira già ben oleato negli ingranaggi del potere: diventerà il nuovo ministro delle Emergenze. Ricompensa per la fedeltà espressa, come nel caso del figlio di Nikolai Patrushev, il capo dell’Fsb (i servizi segreti ultra-putiniani), messo all’Agricoltura.
(Foto: Kremlin.ru)