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Prendiamo esempio dal caso Bridgestone

Massiccia è stata la mobilitazione di operai, tecnici, quadri e alcuni dirigenti del grande stabilimento della Bridgestone di Bari – affiancati da sindacati, Istituzioni locali e governo – per impedire la dismissione del sito con i suoi 950 addetti, annunciata per la prima metà del 2014 e che aggiunge un’altra emergenza occupazionale alle tante che bisogna fronteggiare a livello nazionale. Ma nel caso specifico si è in presenza di una anomalia, essendo in attivo l’impianto e la società cui esso appartiene. Pertanto il 14 marzo al Ministero dello sviluppo economico è stato proprio il Ministro Passera a manifestare al top management della Bridgestone Europe la contrarietà dell’esecutivo italiano alla decisione assunta di chiudere l’impianto che – almeno a livello verbale – è stata poi revocata dall’azienda, anche se dal 5 aprile in nuovi incontri con Sindacati e Istituzioni, sempre al Mise, bisognerà avviare confronti serrati per comprendere sino in fondo le reali intenzioni sull’impianto barese della holding controllata da Tokyo.

La fabbrica, oggi della multinazionale nipponica, si era insediata nella nuova area industriale del capoluogo pugliese nel 1963, nell’ambito della politica di sviluppo dell’appena avviato polo manifatturiero locale, grazie all’intervento della Finanziaria a controllo pubblico Ernesto Breda, allora guidata dal manager pugliese Pietro Sette – poi divenuto presidente dell’Eni e dell’Iri – e dell’imprenditore privato Dardanio Manuli, sulla base di un accordo tecnico con l’americana Seilberling Rubber Co. L’impianto, facente capo così alla Brema, insieme a quelli metalmeccanici del Pignone Sud, del Gruppo Eni, e della Breda Fucine Meridionali – due joint-ventures a partecipazioni incrociate fra l’Eni e la Finanziaria Ernesto Breda – partecipò all’entrata in produzione dell’agglomerato Bari-Modugno, realizzato dal neocostituito Consorzio Asi.

Qualche anno dopo nel capitale della Brema entrarono gli americani della Firestone, apportandovi risorse, management e nuovi mercati e così la fabbrica conobbe una fase di crescita sostenuta, rappresentando un punto di forza dell’apparato industriale non solo del capoluogo ma dell’intera regione: un ruolo che si è poi ulteriormente consolidato, una volta che l’intera holding di controllo è stata rilevata dalla Bridgestone, posseduta da capitale nipponico.

La Bridgestone Italia fra il 2008 e il 2011 ha fatturato 393 milioni nel 2008, scesi a 373 l’anno successivo, risaliti a 419 nel 2010 e cresciuti ulteriormente sino a raggiungere i 513 milioni nel 2011, con un margine operativo netto in quell’anno di 13,7 milioni e un utile di 6,1 milioni. Non si conoscono ancora i risultati dell’esercizio 2012, anche se da indiscrezioni trapelate in fabbrica sembra che non siano affatto brillanti, a seguito dell’aggravarsi della crisi del mercato dell’auto. Nel 2007, inoltre, è stata posta in produzione, accanto alle prime tre, la quarta linea del Banbury, realizzata con un investimento di 4 milioni di euro che ha consentito al sito non solo di essere autosufficiente nell’approvvigionamento delle mescole grazie all’incremento di capacità, ma anche di venderne alle altre fabbriche europee del gruppo. Ed è interessante osservare in ogni caso che gli investimenti nel sito sono continuati sino allo scorso anno, per cui appare singolare la decisione della società di voler dismettere uno stabilimento in cui ha continuato ad investire sino al 2012. All’impianto fa capo anche la Bridgestone Metalpha Italia localizzata ad Assemini in Sardegna ove si produce steel cord, impiegata nell’armatura interna degli pneumatici. A Bari si producono anche pneumatici di alta gamma per committenti come la Bmw che ha qualificato il sito locale per tale fornitura.

Alcuni anni orsono si sperimentarono in questa fabbrica i contratti week-end che impiegavano unità lavorative nel fine settimana per utilizzare al massimo le linee di produzione. Indubbiamente il rallentamento a livello internazionale del mercato dell’auto ha inciso sui volumi del sito – o almeno su quelli dei prodotti generici, ma non sull’alta gamma – che fra l’altro genera una filiera di attività indotte con l’ impiego di un altro centinaio di persone. Al momento tuttavia lo stabilimento produce su tre turni ed ha buone commesse.

Con Bosch, Magneti Marelli, Getrag, Graziano Trasmissioni ed Skf, la Bridgestone rende l’area industriale barese uno dei poli dell’automotive fra i più rilevanti del Mezzogiorno. Per tale ragione, pur nel rispetto delle logiche di mercato a livello planetario che guidano le multinazionali, Regione Puglia e Governo dovranno impegnarsi con Confindustria e Sindacati per indurre i Nipponici a rivedere la loro decisione, offrendo strumenti che consentano loro di accrescere ulteriormente la redditività dell’impianto locale. Tali strumenti a livello nazionale e regionale non mancano ma – ove malauguratamente la Bridgestone confermasse la sua decisione – si potrebbero attrarre sull’area altre multinazionali del settore cui offrire incentivi nazionali o locali, anche per riutilizzare un capitale umano pregiato quale è quello dei dipendenti. Insomma, non è affatto una battaglia di retroguardia quella che si sta combattendo a Bari e Roma.

Federico Pirro

(Università di Bari, Centro Studi Confindustria Puglia)


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