Colpisce ad una attenta lettura del contratto di governo sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, l’assenza di ogni riferimento alla presenza nel nostro Paese di grandi gruppi industriali pubblici e privati operanti in comparti strategici della nostra economia nei quali competono in Italia e all’estero con big player anche molto più grandi dei nostri. Ci chiediamo allora: manca tale riferimento perché è scontato per gli estensori del documento il riconoscimento del loro ruolo trainante per la nostra industria – e più in generale, aggiungiamo noi, per l’economia nazionale – o perché si ritiene invece opportuno privilegiare nelle politiche da promuoversi solo le Pmi alle quali sono dedicati insistiti riferimenti in diversi paragrafi del contratto?
E non mancano solo i riferimenti nominali a quei grandi gruppi, con l’eccezione dell’Ilva il cui richiamo però alluderebbe nella interpretazione del Movimento Cinque Stelle alla sua dismissione, soprattutto del suo sito di Taranto. No, mancano anche riferimenti espliciti a politiche di settore che molti di quei gruppi sono impegnati a portare innanzi, anche dialogando con il ministero dello Sviluppo Economico: automotive, aerospazio, acciaio, chimica di base e chimica fine, Ict, cantieristica navale, approvvigionamenti energetici da fonti fossili e rinnovabili. Queste ultime in particolare sono richiamate, ma senza espliciti riferimenti ai gruppi che generano con i loro impianti energia eolica, solare e idroelettrica.
Ora, non vogliamo pensare che il mancato richiamo a politiche industriali di settore sia un voluto disconoscimento da parte degli staff tecnici di Di Maio e Salvini dell’ importanza di quei comparti e delle loro future proiezioni competitive per i destini di quella che è la seconda potenza manifatturiera d’Europa. Non lo pensiamo, anche perché sarà la stessa Confindustria nella sua assemblea di oggi a ricordarglielo, ma certo ci ha colpito molto l’assenza di un intero capitolo dedicato alle politiche industriali necessarie per conservare e accrescere il potenziale di competitività del nostro sistema produttivo.
È lecito allora attendersi che, invece, in sede di dichiarazioni programmatiche in Parlamento venga colmata questa lacuna, nell’interesse stesso delle forze politiche chiamate a guidare l’Italia. Sarebbe anche un modo per aprire un fecondo dialogo con la Confindustria, i grandi gruppi che non sono più iscritti ad essa come Fca, e con tutti i Sindacati.