“Chiunque avrà la responsabilità del governo del Paese non potrà permettersi di suicidarsi scegliendo il protezionismo”. Enrico Letta è tornato a Roma da Parigi, dove dirige un master alla prestigiosa Sciences Po, e ha qualcosa da dire sul governo che sta prendendo forma in questi giorni. Non ha nessuna intenzione di far parlare di sé, né di rilasciare interviste ai cronisti curiosi di sapere come giudica le turbolenze senza fine della sinistra italiana. Da due anni ormai ha spostato la sua tenda, per citare una celebre metafora prodiana, nella capitale francese, dove può mettere al servizio del mondo accademico la sua lunga esperienza in campo internazionale, al riparo dalle scaramucce dei palazzi romani.
L’occasione per tornare a parlare di politica italiana è la presentazione al Centro Studi Americani di “Tutto un altro mondo” (Ed. San Paolo), l’ultimo libro dell’amica ed eurodeputata dem Alessia Mosca. Il volume, frutto di lunghi anni di studi dell’europarlamentare a Bruxelles, affronta l’eterna sfida fra alfieri del libero commercio e profeti del protezionismo ai tempi della globalizzazione. Un assist perfetto per l’ex premier, che incalzato dalle domande del vicedirettore de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri mette in guardia chi crede di far del bene al commercio italiano a suon di dazi sulle importazioni, una promessa fatta solennemente pochi mesi fa da Matteo Salvini. “Chiunque guardi agli interessi nazionali con un minimo di contezza sa che nella classifica degli Stati membri dell’Ue che hanno più interesse all’apertura commerciale la Germania figura al primo posto, l’Italia al secondo”, dice. “L’Italia ha bisogno del libero commercio come l’ossigeno. Qualunque forma di protezionismo ha un immediato impatto negativo sul nostro sistema economico e industriale”.
Pensa male, ragiona Letta, chi crede di inseguire il presidente americano Donald Trump nella corsa ai dazi con l’Europa. Non solo perché il divario fra Roma e Washington è tale da rendere il paragone velleitario. Ma soprattutto perché le rivendicazioni degli americani non sono poi così infondate, a differenza di quelle degli italiani, da sempre campioni dell’export. “Il ragionamento di Trump ha una sua logica” spiega il professore, “gli Stati Uniti producono molto meno di quanto consumano, noi facciamo il contrario. Loro hanno bisogno di bilanciare, noi abbiamo tutto l’interesse a un sistema di commercio aperto”. Da soli non si va da nessuna parte, è il gioco di squadra europeo che farà la differenza. “Se c’è un motivo per cui l’Europa ha preso la leadership nel mondo, nonostante le dimensioni relativamente piccole, è perché ha moltiplicato gli scambi commerciali divenendo competitiva”. Se l’Italia s’illudesse di poter far da sé, continua Letta, dovrebbe presto fare i conti con i suoi limiti. “Avete idea di cosa vorrebbe dire discutere di un trattato commerciale con la Cina? Ci ritroveremmo tutti nella condizione un po’umiliante in cui si è trovata Theresa May dopo aver fatto quella grande genialata della Brexit”.
Il governo italiano ha dunque tutto l’interesse di supportare Bruxelles nella negoziazione di grandi accordi di libero scambio con il resto del mondo. La partita è europea, ma l’aria che tira non è delle migliori. Il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) fra Ue e Stati Uniti è finito in un canale morto già negli ultimi mesi della presidenza Obama. Il Comprehensive Economic and Trade and Investment Agreement (Ceta) con il Canada è andato incontro allo stesso destino, con l’aggiunta di una beffa: è stata la Vallonia, una piccola regione del Belgio, ad apporre il veto che ha fatto saltare anni di negoziati. Una sconfitta cocente, specie per chi, come Alessia Mosca, ha lavorato in prima persona sull’accordo dai banchi di Bruxelles e Strasburgo. “Questi temi non possono essere bloccati da piccole prese di posizione” commenta lei con un po’ di rammarico, “la trasparenza è una battaglia che l’Europarlamento ha già vinto da tempo, ma in certe occasioni sarebbe opportuno che le istituzioni Ue possano negoziare senza che i propri progetti vengano fuori prima ancora che si apra il tavolo negoziale”.