Perdurante crisi economica e immobilismo delle forze politiche riportano al problema della tenuta del sistema-Italia nel quadro dell’economia globalizzata. Eni, Finmeccanica, Ilva, Saipem, Alitalia, Mps: sono queste oggi le imprese strategiche in difficoltà per iniziative giudiziarie nazionali ed internazionali. Come nei primi anni Novanta, dunque, ci troviamo di fronte a un passaggio probabilmente decisivo per i maggiori gruppi industriali e finanziari del Paese. Gli esperti più attenti mettono in guardia dal pericolo di un nuovo saccheggio, come quello che avvenne nel 1992-1993. Quando, come ci ricorda l’economista Francesco Forte, con il nome di “privatizzazioni” si realizzò la svendita di pezzi importanti del sistema industriale e finanziario del Paese. Allora, nel pieno del caos politico-giudiziario di Tangentopoli si mise in atto una vera e propria cannibalizzazione. A farne le spese furono le grandi imprese statali (le industrie, ma anche le banche di interesse nazionale) del sistema Iri, ma anche pezzi di Eni e l’intera Efim, liquidata e parcellizzata. E con “l’acqua sporca” della corruzione e collusione politica finì nel tritacarne anche “il bambino”: imprese spesso competitive, certo da ristrutturare e rilanciare, ma non fallimentari. E sempre in settori che già allora apparivano come strategici per reggere la concorrenza globale. Un solo clamoroso esempio: la chimica, come ci ricordano le memorie di Lorenzo Necci, presidente di Enimont che Formiche pubblica assieme agli interventi di Stefano Righi, Renato Ugo e Giuseppe De Lutiis.
Il ruolo di destabilizzatore di un sistema già compromesso che nel ’93 svolse Antonio Di Pietro potrebbe oggi essere appannaggio del Movimento 5 stelle? Alcuni (iniziali) entusiasmi per il successo politico di Beppe Grillo da parte di Goldman Sachs potrebbero farlo pensare. Un protagonista di quegli anni come Paolo Cirino Pomicino non nasconde le preoccupazioni per un nuovo corto circuito tra movimentismo del comico genovese e interessi finanziari internazionali. La disarticolazione politica che viviamo ha però una differenza di fondo: è vissuta nel segno dell’integrazione europea. Durante gli anni che hanno accompagnato l’introduzione dell’euro si è formata in Italia una nuova leva di piccoli e medi imprenditori, che ha saputo crescere nel nuovo contesto, migliorando i processi e ridisegnando le filiere. E oggi preme alle porte della politica, come scrive su Formiche Marco Andrea Ciaccia, con domande di partecipazione che il sistema che lega partiti e grandi imprese non ha ancora soddisfatto. Ma la politica di oggi non è quella del ’93, quando, secondo l’economista Giulio Sapelli, si realizzò “l’inserzione subalterna dell’Italia nella globalizzazione”, mentre oggi il rischio vero è “il degrado dello spirito pubblico” e la “crescita di umori neo-autoritari nelle grandi masse declassate”.
La storia si ripete sempre due volte, e la seconda ha il tono della farsa. Riusciremmo a reggere, oggi, ad un’altra destabilizzazione politico-economica del Paese, in un momento in cui eccellenze tecnologiche e produttive (come quelle aerospaziali) sono a rischio sui mercati globali, sfiorate o coinvolte appieno in nuove inchieste, e al tempo stesso oggetto di interesse internazionale? Ci troviamo davanti a un bivio: o riusciamo a sconfiggere retaggi populistici e faziosi che impediscono di perseguire l’interesse nazionale in un’Europa essa stessa in grande difficoltà, oppure rischiamo di rivivere l’esperienza dei primi anni ’90: ovvero la cessione/svendita di imprese strategiche e la perdita di punti di forza economici.