Con la sospensione dell’accordo sui migranti con la Grecia, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan torna a servirsi di una tragedia umanitaria, della quale l’Unione Europea, con il patto che ha firmato, è automaticamente complice, per obiettivi che gli stanno ben più a cuore.
La motivazione del provvedimento, infatti, è il rifiuto, da parte di Atene, di consegnare ad Ankara otto presunti golpisti che la notte del golpe fallito, il 15 luglio 2016, riuscirono a scappare oltre il confine, chiedendo asilo politico.
Da quel momento, la loro sorte è diventato il pretesto per ben altro tipo di rivendicazioni. I rapporti fra Turchia e Grecia, come abbiamo visto, sono tesi ormai già da qualche anno. Non solo a causa delle dispute marittime. Alcuni membri dell’esecutivo hanno rivendicato come turche isole del Dodecaneso e il presidente della Repubblica di Ankara fa riferimento con insistenza crescente alla discussione del trattato di Losanna, firmato nel 1923 e che scadrà nel centesimo anniversario della fondazione della Repubblica turca.
Una politica estera che mira a portare il mediterraneo, almeno quello settentrionale, in una condizione pre prima guerra mondiale e che risponde a determinate ambizioni neo imperiali da parte di Erdogan, senza tenere conto dei profondi mutamenti che la regione ha subito in questi anni e con una Turchia troppo esposta internazionalmente e che, con tutti questi fronti aperti e tavoli su cui vuole giocare, rischia di rimanere senza niente.
Nell’espansione verso l’Asia Centrale, se la deve vedere con la Russia, con cui ha stretto un’alleanza dalla quale adesso dipende in modo troppo vincolante per fare saltare tutto e con la quale deve ancora trovare un difficile compromesso per il nuovo ordine in Siria. Ankara ha allungato l’occhio anche in Africa, ma qui se la deve vedere con la Cina e le potenze con capacità superiori alle sue. Per quanto riguarda l’egemonia in Medio Oriente, ha da una parte il blocco saudita e dall’altra parte l’Iran.
L’unica opportunità davvero concreta rischia proprio di essere la penetrazione nei Balcani e la politica aggressiva nei confronti della Grecia. Il tutto “grazie” a un’Unione Europea troppo poco compatta, che prima ha condotto negoziati di adesione con la Turchia in modo scorretto e poi non ha saputo interpretare o contrastare la deriva autoritaria di Erdogan. Una Ue troppo ricattabile e che non ha ancora compreso come questa Turchia sempre più radicalizzata possa essere pericolosa anche se rimane fuori dal club di Bruxelles.
Erdogan lo ha capito fin troppo bene e al momento sta utilizzando l’accordo sui migranti per premere almeno su quattro capitoli. Il primo, temporaneo, è la ricaduta interna in termini di consenso che questo atteggiamento può portargli in vista delle elezioni del 24 giugno, che potrebbero essere meno agili del previsto. Il secondo, sono le contese aperte con Atene di cui ho parlato sopra. Il terzo sono gli aiuti economici, che Bruxelles ha dispensato solo in parte. Il quarto è l’agognata liberalizzazione dei visti che permetterebbe a Erdogan di stare in Europa a modo suo, sottraendosi agli obblighi imposti dall’Unione, ma al tempo stesso lanciando determinati messaggi ai sei milioni di turchi che europei, almeno sul passaporto, lo sono già.