La lunga sequenza delle cosiddette “primavere arabe” si è interrotta da tempo in Siria, grazie all’intervento russo, ma non cessa di espandersi altrove; dati i numerosi operatori, nelle varie “società civili” nazionali, che ancora si muovono dentro questo quadro strategico delle arab springs, che fu posto in atto, principalmente, dagli Usa e dai loro alleati nel mondo sunnita. È questo il caso, indubbiamente, della rivolta, avvenuta ai primi di questo mese di giugno, in Giordania. Re Abdallah, dopo la rivolta di piazza in varie città del Regno e, soprattutto, ad Amman, ha accettato, proprio il 4 giugno scorso, le dimissioni del primo ministro Hani al Mulki. L’ex-primo ministro di Giordania, Hani Fawzi Mulki, già direttore della Zona Economica Speciale di Aqaba, ha studiato in Egitto e negli Usa. Mulki, non è poi un dato da trascurare, ha diretto il team che sancì il trattato di pace tra Giordania e Israele del 1994, poi, dopo vari rilevanti incarichi, è stato nominato primo ministro il 29 maggio 2016. La questione, per il gabinetto di Hani al Mulki, è stata soprattutto quella dell’aumento verticale del debito pubblico giordano: rinegoziato nel 2016, proprio nell’era del gabinetto Mulki, il debito nazionale giordano si è salvato con un pacchetto di ben 732 milioni di dollari, a causa di un prestito del Fondo Monetario Internazionale, della durata di tre anni.
Un prestito che, apparentemente avrebbe dovuto far crollare il rapporto debito/Pil dal 95% al 77% entro il 2021. Ma i debiti vanno rimborsati e Amman si è trovata a agire con la solita ricetta: meno spesa pubblica e aumento dei prezzi, soprattutto di quelli amministrati che, naturalmente, hanno un potente effetto politico. Strano che una spesa divenga magicamente una entrata, ma dobbiamo notare che il debito pubblico della Giordania somma sia quello locale, denominato in dinari, che quello esterno, definito da sempre in valute estere. Il Fmi non ha fatto differenze, nemmeno in questo caso. Nel 2016, il debito pubblico di Amman è salito quindi del 4,9%, ma la quasi totalità di questo costo riguarda valute estere, non dinari giordani. Altro che le magiche diminuzioni del debito vendute dagli analisti del Fmi. Ma anche i prezzi e i valori in dinari ne hanno pagato, ovviamente, le conseguenze. Se poi sommiamo le due quote del debito, l’esterna e l’interna, arriviamo al 39,5%, il dato ufficiale definito alla fine del 2016. Siamo oggi, secondo le statistiche del governo di Amman, al 95,3% del rapporto debito pubblico/Pil. Ben lontani dal 77% previsto dai banchieri occidentali. Naturalmente, il programma di austerità necessario a pagare, in tempi brevi, il prestito internazionale ha creato la condizione per l’aumento dei prezzi dei beni primari e delle tariffe elettriche, mentre Re Abdallah, subito il 1 giugno, ha ordinato la immediata cessazione degli aumenti dei prezzi. Se, quindi, lasciamo liberi gli organismi internazionali finanziari di operare secondo le regole di mercato, spesso manipolate anch’esse; ed in Paesi-chiave dal punto di vista strategico, allora non vi sarà nessun intervento, umanitario o meno, che possa recuperare lo status quo ante o una presa strategica credibile delle Forze occidentali.
Il governo di Hani Mulki, comunque, aveva proposto di aumentare la tassa sul lavoro dipendente tra il 20 e il 40%, mentre il costo dell’elettricità per gli utenti è salito del 55%, fin dallo scorso febbraio. Che l’universo strategico che supporta, ancora, il fallimentare progetto delle arab springs abbia mirato Amman, dopo aver fallito in Siria, in Egitto e, inizialmente, perfino in Tunisia? Che qualcuno pensi ad una long war che, nelle more della pacificazione siriana, si sposti in Giordania, incendiando il quadrante più pericoloso di tutto il Medio Oriente? Speriamo di no. Dopo Mulki, il Re di Giordania ha nominato capo del Governo Omar Al-Razzaz. Chi è il nuovo primo ministro? È un economista educato ad Harvard e che ha lavorato alla Banca Mondiale, sia a Washington che in Giordania e in Arabia Saudita. Già ministro dell’Educazione giordano, che si è spesso opposto, in tempi non sospetti, alle politiche di libero mercato che destabilizzano le masse povere del Terzo Mondo senza produrre, peraltro, alcun risultato economico accettabile. Peraltro, Re Abdallah non ha ancora riaffermato il suo sostegno alle nuove politiche saudite di Muhammad bin Salman. Che i sauditi abbiano messo la loro mano invisibile nella destabilizzazione giordana? Non possiamo escluderlo. Ma sarebbe suicida, per l’Ue e gli Usa, sostenere Riyadh in questa operazione. Riyadh è, comunque, ancora la chiave della salvezza economica e geopolitica giordana, anche se il Re di Amman sa benissimo che il suo quadrante strategico è oggi sempre più complesso e plurale; e include anche lo stato ebraico.
La Giordania, infatti, ospita almeno 675.000 rifugiati censiti, oltre, probabilmente, altri 540.000 che non sono registrati. Il Regno hashemita ha, lo ricordiamo, una popolazione totale di 9,5 milioni di persone, di cui già 3 sono antichi migranti o comunque, per dirla con il gergo dell’Onu, displaced persons; mentre la sola crisi siriana, la più recente, è costata al Regno di Amman, dal 2011 in poi, almeno 2,5 miliardi di Usd. I dati più recenti dell’Ilo, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei diritti dei lavoratori, ci informa che la Giordania, alla fine dell’anno 2017, aveva 2 milioni e 100.000 palestinesi, 655.900 siriani, poi altri 315.000 lavoratori migranti registrati ufficialmente. In totale, oggi, i lavoratori stranieri dovrebbero essere ben 950.000 sul totale della popolazione giordana. Tra i migranti, gli egiziani sono il 61,63% del totale, i bangladeshi il 15,66%, i filippini il 5,37%, mentre i provenienti dallo Sri Lanka e gli indiani si attestano tra il 4,72 e il 3,65%. La conferenza dei donatori internazionali del Regno di Amman, poi, organizzata nel febbraio 2016, ha stabilito che la comunità internazionale fornisca alla Giordania 1,7 miliardi di Usd in prestiti e fondi, ma solo in cambio dell’apertura dei propri mercati interni al lavoro dei migranti siriani; con una ulteriore, lontana promessa di abolizione delle tariffe dei prodotti del regno hashemita verso la Ue. L’economia giordana, peraltro, vale oggi 38 miliardi l’anno.
E, in ogni caso, l’industria dell’abbigliamento di Amman è funzionale soprattutto al mercato Usa, che ne assorbe circa il 78%, soprattutto grazie al trattato di libero scambio tra i due Paesi. Nel febbraio 2017, comunque, la Giordania ha raccolto ulteriori 900 miliardi di fondi esteri, tra cui 147 milioni in prestiti della Banca Mondiale; e un ulteriore trasferimento di cassa tra gli Usa e il Regno giordano pari a 300 milioni, una operazione, questa, effettuata nel dicembre 2016. L’ipotesi di fondo, lo ripetiamo, era che l’industria dell’abbigliamento giordana, che vale oggi il 20 del Pil nazionale; e che occupa prevalentemente asiatici, avrebbe potuto dare opportunità di lavoro alla gran massa dei migranti dalla Siria. E lavorare soprattutto, come già oggi accade, per il mercato Usa.
Ma l’80% dei rifugiati siriani, 1,3 milioni oggi in Giordania, vive nelle città maggiori e non nelle aree di produzione dell’abbigliamento; mentre il salario minimo di legge, in Giordania, non è tale da coprire nemmeno le spese minime di sostentamento, in tutto il Regno. Erano questi dei dati sconosciuti, probabilmente, ai firmatari del jordanian compact, siglato a Londra nel febbraio, lo abbiamo già citato, del 2016. Quindi, abbiamo oggi in positivo, per Amman, un probabile accesso free market ai mercati Eu, 1,7 miliardi di euro di prestiti, per tre anni, e lo abbiamo già citato; e infine una esenzione, per dieci anni, dalle tariffe di importazione dentro l’Unione Europea. Troppo poco, quindi, per sostituire il Welfare statuale giordano con l’economia dei privati, che possono sopravvivere solo grazie alla compressione salariale e al “buon cuore” degli importatori occidentali, che possono sempre comprare beni a basso valore aggiunto in Africa, in altri Paesi mediorientali, nell’Asia centrale o in India.
Il criterio dei trattati commerciali, bilaterali o meno, che è oggi la bussola con cui si muovono sia gli Stati Uniti che la Ue, non è quindi affatto sufficiente a sostenere lo sviluppo economico dei Paesi periferici. Occorre quindi un vero programma di aiuti rapidi e rilevanti, per la Giordania, collegati a investimenti esteri diretti. Un programma che tamponi velocemente le crisi economiche e sociali dell’ormai imploso Medio Oriente, il pericolo di una destabilizzazione jihadista, senza via di uscita, è più vicino di quanto si creda. Quando la casa brucia, diceva Karl Kraus, si può pregare o lavare il pavimento, ma pregare è più pratico. Si dovrebbe far entrare nel mercato-mondo i Paesi periferici non con piccoli escamotage commerciali, che durano sempre lo spazio di un mattino, ma con l’analisi delle specializzazioni produttive di ogni Paese mediorientale. In cambio dei finanziamenti, comunque, lo ricordiamo ancora, il governo di Amman doveva garantire almeno 220.000 “opportunità di lavoro” per i rifugiati siriani.
Attualmente, gli occupati siriani sono 39.500. I posti di lavoro non si creano, si generano da soli. Altrimenti si chiamano, più esattamente, sussidi o attività improduttive mascherate da lavoro. Confondere la questione dei rifugiati dalla Siria con quella del decollo economico siriano è stato, comunque, un grave errore. Peraltro, la scelta primaria, economica e politica, del governo giordano è stata, principalmente, quella di garantire nuovi posti di lavoro ai rifugiati nelle Zone Economiche Speciali, come per esempio quella di Al Dulayl, a nord di Amman. Ma l’elasticità del mercato del lavoro, lo sapevano i veri e antichi economisti, è sempre limitata dalla sua produttività media e dalla quota degli investimenti. Comunque, la crescita del Pil giordano è stata, nell’ultimo anno 2017, di meno del 3% e, oggi, il Pil previsto dal governo di Amman è meno del 2%. Ma la Giordania deve almeno raddoppiare il suo attuale tasso di crescita, almeno quanto basta per riassorbire, senza ulteriori disastri politici, la sua disoccupazione interna, che è oggi almeno del 15%. E allora, come va il rapporto economico tra Amman e Riyadh, storicamente essenziale per la sopravvivenza del Regno hashemita? Nel 2011, è stato reso operativo un fondo, in gran parte non-bancario, per la Giordania, da parte delle varie potenze del Golfo, che valeva di 5 miliardi di Usd, proprio mentre la crisi finanziaria globale diventava sempre più dura. Tra il 2011 e il 2012, l’Arabia Saudita ha garantito altri 1,4 miliardi di Usd di solo cash flow, oltre a garantire altri 1,5 mld di dollari americani in depositi, presso la Banca di Emissione Giordana.
È stato inoltre siglato, durante la visita di Re Salman ad Amman nel marzo 2017, un accordo riguardante 15 operazioni economiche bilaterali tra Sauditi e Giordani, che riguarda inoltre un accordo, futuro, di altri 3 miliardi in finanziamenti per progetti sauditi in Giordania. Per quanto riguarda il turismo, essenziale per la bilancia dei pagamenti di Amman, vi è stata una caduta delle entrate del 2,0% e del 2,5% negli ultimi anni. Oggi, la situazione degli aiuti sauditi e delle potenze del Golfo sunnite è minimo; ed è proprio questa la causa prima della crisi economica giordana. Certamente, è in causa il ridisegno delle alleanze geopolitiche di Riyadh e del progetto saudita di Vision 2030, nel quale il principe Muhammad bin Salman intende creare, per il futuro, una economia ormai sganciata dal ciclo finanziario del petrolio e tesa agli investimenti là dove sono più utili, ovvero in Occidente.
Niente più “pasti gratis” dei sauditi in Medio Oriente. È il panorama consueto, quello delle attuali rivolte giordane, che ha visto la nascita e l’applicazione del progetto “primavere arabe”. Aumento, prima dello scoppio delle rivolte, dei prezzi dei beni di prima necessità, poi distruzione progressiva del Welfare State per fare cassa, infine cessione delle masse popolari o ai jihadisti o ai Fratelli Musulmani, come accadde in Egitto, dove proprio la Fratellanza faceva servizio d’ordine a Piazza Tahrir. In tempi più lunghi, la distruzione della poca classe media occidentalista rimasta, poi diminuzione dell’appoggio popolare ai regimi moderati, infine la rottura dei confini. Se questo accadrà, in futuro, nel Regno di Giordania, la crisi di Amman deborderà e si aggiungerà inevitabilmente alla destabilizzazione siriana, al failed state iraqeno, alla tensione militare ai confini tra il Regno hashemita e Israele. Il peggiore scenario possibile. Meraviglia poi come, nel Grande Medio Oriente, si dia libertà di destabilizzazione alle banche d’affari internazionali. Il vecchio contratto sociale, in Giordania come altrove nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord, è stato definito da alcuni studiosi come “scambio autocratico”.
La classe media si sosteneva e si espandeva, grazie ai benefici selettivi del Governo, che compravano, ovviamente, la stabilità politica, mentre i contributi per la spesa alimentare e la casa, pur generici, stabilizzavano i poveri e li rendevano, come diceva Elias Canetti, “masse subordinate”. Gli stipendi pubblici, presenti in ogni nucleo familiare, erano letti dalle masse come utilissime reti di sicurezza. Ma, proprio all’inizio di questo millennio, questo tipo di contratto sociale diviene finanziariamente insostenibile. Ma quello che veniva perduto con il blocco dei salari pubblici e del numero dei dipendenti statali, o con la fine dei sussidi ai poveri, non veniva recuperato dal settore privato. Era ovvio che ciò accadesse. La disoccupazione, in un mondo dove l’ascensore sociale era stato rapidissimo, colpiva, all’inizio della grande crisi del 2000, soprattutto i giovani con buoni titoli di studio. Che diventavano, ce lo ha insegnato Isaiah Berlin nel suo straordinario The Soviet Mind, i disoccupati superbi che si trovano all’inizio di ogni rivoluzione moderna, da quella francese alla bolscevica e oltre.
Il jihad della spada di Al Qaeda è, da questo punto di vista, la risposta delle nuove masse di sradicati arabi alla fine del loro Welfare e alla cessazionedel patto politico che creava e stabilizzava il Medio Oriente, che si era ridefinito nella guerra fredda e durante i “socialismo nazionali” di tradizione nasseriana. In questo contesto di lenta e stabile degenerazione sociale ed economica, diviene centrale il ruolo del wasta, ovvero del collegamento con le èlites del potere, soprattutto di quello finanziario connesso agli “aiuti” internazionali. Le proteste in Giordania, però, hanno una ormai lunga storia. Nel 1996, esse scoppiarono, soprattutto nel Sud povero del Paese, contro l’aumento del prezzo del pane mentre prima, nel 1989, la rivolta si limitò alla città di Maan, dove il Re Husseyn riuscì a tacitare le masse, a riformare la rete del sostegno ai poveri, ad eliminare, per quanto possibile, la rete della Fratellanza Musulmana. Una soluzione alla crisi giordana potrebbe essere, oggi, quella di ricostruire un contatto, da parte di Amman, con il Qatar. Le recenti misure anti-Qatar decise dai sauditi e da molti loro alleati, anche occidentali, che pure hanno visto il sostegno parziale e freddo del Regno di Amman, sono state, evidentemente, all’origine della nuova tensione tra Riyadh e il Regno hashemita. Quindi, una via di uscita per il Re Abdallah potrebbe essere oggi un nuovo sostegno dall’Emirato di Doha e, anche, un nuovo rapporto con la Turchia. Poi, vi è la questione dei rifugiati che la Giordania non può non sostenere sul suo territorio, il che implica un costo annuo di 5,6 miliardi di Usd di cui solo un quarto è, in effetti, disponibile per le finanze di Amman. Altra rete di protezione, per il Regno giordano, viene oggi dal Kuwait, con una recente combinazione di investimenti, prestiti e doni.
Anche la religione conta molto, però, nel dissapore recente tra i sauditi e i giordani. Il principe saudita aveva richiesto a Re Abdallah II di non andare alla Conferenza di Istanbul su Gerusalemme, ma il sovrano giordano è andato lo stesso, sostenendo che è proprio Amman responsabile per le strutture islamiche della città, ovvero del duomo della Roccia, della Moschea di Al Aqsa, oltre a tutte le altre sedi islamiche in Gerusalemme Est. Da questo rifiuto di Abdallah è seguito immediatamente, è qui il punto, il blocco degli ultimi finanziamenti sauditi alla Giordania, con una recente tranche di 750 milioni di Usd che si è fermata a Riyadh. Per reazione, la Giordania ha deciso di bloccare il passaggio sul suo territorio dei camion sauditi, un traffico di circa 3000 mezzi al giorno, vitali per Riyadh. Inoltre, Amman ha bloccato le operazioni della missione militare saudita ai confini con la Siria, nel punto in cui le forze del Regno wahabita colpivano obiettivi, posti in Siria, da aree giordane. Ecco, il nesso tra crisi economica, strategia militare e rivisitazione dei tradizionali equilibri in Medio Oriente passa non solo dalla indecisione occidentale, ma dalla fine del Welfare arabo, che destabilizzerà quelle società in un modo mai visto prima. Certo, una quota di aiuti rapidi al Regno hashemita, da parte della Ue e, magari, degli Usa, sarebbe una buona soluzione, almeno per cominciare. Ma dubitiamo che i decisori occidentali comprendano, oggi, il nesso tra economia e strategia.