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Perché ritorna il presidenzialismo? Un’iniziativa referendaria al culmine della crisi del sistema politico

presidenzialismo

Domani mattina il professore Giovanni Guzzetta, docente di diritto costituzionale a Tor Vergata, depositerà presso la Corte di Cassazione le firme necessarie per l’indizione di un referendum popolare d’indirizzo sul presidenzialismo. “È il primo passaggio – ha detto tempo fa, ribadendolo oggi in un dettagliato articolo sul Corriere della sera –  di una battaglia che richiederà il contributo di tutti i cittadini. Bisogna raccogliere le firme e fare pressione sul Parlamento, affinché si scrolli da questo senso di impotenza e dalla rimozione del tema delle riforme”.

Guzzetta, tempo fa, ha anche ricordato che “sono quarant’anni anni che si cerca di fare riforme in questo Paese. La politica s’impantana e i processi di cambiamento si bloccano. Abbiamo una Costituzione che è troppo vecchia per le esigenze di oggi e la crisi dei 90 giorni lo dimostra. Si deve ripartire dai cittadini per indicare la strada alla politica. La nostra proposta è quella di un referendum istituzionale sul presidenzialismo”. Il riferimento è al travaglio post-elettorale che ha messo a nudo non soltanto l’inadeguatezza di una legge elettorale che mai avrebbe dovuto essere promulgata, ma anche della inadeguatezza di una classe politica che, combinata a quella del sistema istituzionale vigente, dà come risultato l’impotenza o l’instabilità degli esecutivi spesso nati per disperazione, in aperta contraddizione con gli orientamenti elettorali.

Guzzetta ha anche ricordato che “esiste sulla carta anche una maggioranza presidenzialista e i tempi sono maturi, ma le forze politiche preferiscono litigare sulle beghe contingenti, piuttosto che prendersi responsabilità storiche”. Perciò il referendum può essere la spinta propulsiva che finalmente faccia riflettere le forze politiche e favorisca il dibattito pubblico su un tema come l’elezione diretta del Capo dello Stato che davvero non ci sembra più procrastinabile.

Il progetto di Guzzetta e di chi lo sostiene è tutt’altro che irrealistico, anche se la politica di questi tempi sembra maggiormente incline a creare nuovi facili consensi in vista di una partita finale per l’egemonia nel Paese. Infatti, il professore, in una intervista al Dubbio nel febbraio scorso, osservava che “approvare una legge costituzionale con cui, e sarebbe assolutamente legittimo, si chiede agli elettori di pronunciarsi su due o più ipotesi di eventuale modifica della Carta, indicati in modo dettagliato o anche per grandi linee. Dopo una simile pronuncia popolare, si potrebbe approvare un riforma nella direzione indicata dai cittadini, e a quel punto l’ipotesi che un referendum confermativo mandi tutto per aria sarebbe irrealistica. Perché, diciamo la verità, il vero problema del fallimento delle riforme è stato, in questi anni, più nel metodo che nel merito. Le forze politiche convergevano nelle soluzioni di merito, ma poi, a un certo punto, tutto saltava perché l’uno o l’altro partner si sfilavano. È successo con il centrodestra e con il centrosinistra. Il problema è dunque un metodo che costringa ad andare fino in fondo per non perdere la faccia di fronte ai cittadini”. Come con essere d’accordo ricordando che una una volta c’era la “Nuova Repubblica”. Suggestioni che ritornano, si dirà. Ed è del tutto naturale  nel corso di stagioni politicamente convulse come questa in cui siamo immersi. Me ne sono ricordato, come quasi sempre accade, non soltanto leggendo le estemporanee dichiarazioni di esponenti politici che rispolverano il presidenzialismo soltanto per fare facile demagogia al culmine della constatazione della loro impotenza, ma anche, in maniere più “intima”, mettendo ordine sugli scaffali della mia biblioteca, quelli più alti.

C’è chi getta via o, nella migliore delle ipotesi, offre ai rigattieri e agli antiquari libri di letteratura politica che non si dovrebbero leggere più. E c’è chi, come me, tende a preservare tutto: specialmente ciò che è demodé. Così mi sono imbattuto in alcune pubblicazioni di oltre trent’anni fa che parlavano di una “Nuova Repubblica”, la fortunata formula di un grande politico del passato, Randolfo Pacciardi, ricordato recentemente su questo sito, politico di rango, repubblicano, combattente antifascista, ministro della Difesa autorevole, suscitatore di grandi speranze in tempi in cui non se ne nutrivano tante sulla possibile riforma della nostra democrazia.

Quella sua intuizione venne ripresa da Giorgio Almirante, indimenticato leader del Msi e continuatore dei primi vagiti presidenzialismo del dopoguerra emessi da un intellettuale di destra frettolosamente archiviato, Carlo Costamagna; da Bettino Craxi, segretario del Psi; dagli inquieti democristiani di “destra” (da Bartolo Ciccardini a Mario Segni), ma anche dal “Gruppo di Milano”, animato dal geniale politologo e costituzionalista Gianfranco Miglio, anche lui frettolosamente riposto tra le anticaglie inservibili dalla nuova Lega. Uomini e storie che non avevano molto in comune se non l’ansia di dare uno spirito nuovo alla Costituzione repubblicana e, dunque, di rifondare lo Stato.

Ne riparlo oggi, non soltanto perché la tematica viene autorevolmente ripresa ed il “passo” di Guzzetta mi sembra importantissimo, e non ovviamente per fare dell’archeologia politica né per rendere uno sterile omaggio a chi aveva previsto con grande anticipo la crisi istituzionale nella quale siamo impaniati da qualche decennio. Ne parlo perché della crisi del sistema ormai se ne sono accorti tutti e il solo sbocco possibile sembra essere proprio quello di pensare ad una Nuva Repubblica alla quale dovrebbero rivolgere qualche attenzione meno occasionale (se non inesistente) proprio le cosiddette forze del cambiamento. Riformisti e conservatori, insomma, dovrebbero ancorare  quella “suggestione”, che non a caso venne definita “gollista” per le indubbie ascendenze che evocava l’esperienza del generale-presidente, e rilanciarla dal punto in cui è stata  lasciata cadere.

Presidenzialismo, separazione netta dei poteri, sicurezza interna, occidentalismo che non ammette concessioni al multiculturalismo, difesa della sovranità dei popoli e della loro identità, neo-europeismo che si contrapponga al globalismo politico con un’accentuata presenza negli organismi comunitari delle ragioni degli Stati-nazione: ecco il catalogo di allora, oggi ancora integro, che si lega ad una riforma dello Stato nella quale i cittadini possano scegliere governi e decisori in grado di interpretare istanze come queste richiamate.

La “Nuova Repubblica”, che non è un reperto, rappresentò una formula unificante le più varie e diverse culture una quindicina d’anni fa, ai tempi delle Bicamerali. I tempi, all’apparenza favorevoli, in realtà non permettevano allora l’osmosi e l’interazione che oggi, invece, con l’accentuarsi della risi del sistema, dovrebbero essere possibili. E così si lasciò cadere l’illusione  di mettere insieme i soggetti più dinamici e politicamente avanzati per riformare la Carta costituzionale e con essa la nostra democrazia.

Siamo in ritardo di oltre trent’anni. Trent’anni affollati di bicamerali, tavoli di studiosi, inciuci, ma risultati concreti niente. Alcune forze politiche, soprattutto di centrodestra, nel passato  hanno avuto l’occasione, di riprendere una grande idea e rilanciarla per come i tempi richiedevano, ma se ne sono ben guardate. La verità è che per portare a compimento un’operazione del genere c’è bisogno di attivare una pubblica discussione, mettere da parte gli spauracchi elettorali, esorcizzare le idiosincrasie di questo e di quello, le gelosie legate alle appartenenze ed alle provenienze.

Questa oggi, al di là delle collocazione e nel momento più difficile della vita politica della Repubblica, dovrebbe essere la grande sfida capace di suscitare passioni sopite e aggregare energie disperse. Al di fuori di questa prospettiva c’è il nulla. E credo che nessuno vi si voglia votare, fosse pure per pigrizia mentale.


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