Il decreto legge, denominato decreto dignità, varato dal governo – in assenza peraltro di Matteo Salvini, uno dei due vicepresidenti del Consiglio – contiene fra le altre alcune misure sul lavoro, proponendosi di cambiare in parti rilevanti il jobs act. Soffermandoci ora su tali punti del provvedimento – che include anche un pacchetto fiscale – vediamo quali sono i cambiamenti più significativi.
Per il licenziamento illegittimo l’indennità massima ai lavoratori interessati alla cessazione del rapporto di collaborazione passerebbe da 24 a 36 mensilità, mentre la minima salirebbe da 4 a 6. Il contratto a termine – la cui durata massima scende da 36 a 24 mesi – può essere stipulato senza causali fino a 12 mesi, mentre il rinnovo deve essere giustificato da ragioni temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive oppure connesse ad incrementi temporanei significativi e non programmabili dell’attività ordinaria, o relative a lavorazioni e a picchi di attività stagionali. Le proroghe possibili scendono da 5 a 4 e il costo contributivo aumenta di 0,5 punti per ogni rinnovo, in aggiunta all’incremento dell’1,4% introdotto dalla Fornero per finanziare la Naspi. Le nuovi disposizioni si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato di nuova sottoscrizione, e nei casi di rinnovo dei contratti in corso all’entrata in vigore del provvedimento. Alla nuova disciplina dei contratti a tempo determinato viene equiparata la somministrazione, e le Agenzie per il lavoro temporaneo potranno avere al massimo il 20% di assunti a termine.
Le imprese poi decadono da un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi in caso di delocalizzazione entro cinque anni dall’iniziativa agevolata. Il contributo deve essere restituito con gli interessi, calcolati al tasso di riferimento vigente al momento dell’erogazione maggiorati fino a 5 punti. Si applica anche una sanzione da due a quattro volte l’importo indebitamente fruito. È prevista anche la revoca totale o parziale – in base alla dimensione dell’impresa e alla riduzione di occupazione – degli aiuti alle imprese che prima di 5 anni riducano l’occupazione nell’unità produttiva o attività interessata dal contributo. Si opera anche una stretta sull’iperammortamento di industria 4.0: infatti, in caso di cessione a titolo oneroso o di delocalizzazione all’estero dei beni e dei macchinari incentivati, l’impresa è tenuta a restituire i benefici fiscali di cui ha goduto. Nel mirino finiscono anche i possibili ‘abusi’ del credito di imposta sulla ricerca per le operazioni infragruppo.
Questi a grandi linee i contenuti del decreto dignità. I primi commenti sono già stati molto numerosi e hanno visto contrapporsi Associazioni datoriali da un lato – in larga misura contrarie a questa specifica parte del provvedimento – e ministro Di Maio con il Movimento 5 Stelle dall’altro che, invece, hanno sottolineato come il decreto intenda avviare il superamento della precarietà del lavoro. Renzi, a sua volta, si è schierato contro il decreto, richiamando l’importanza dal suo punto di vista del jobs act , mentre la Lega con i suoi rappresentanti in Consiglio dei ministri ha espresso riserve su alcuni punti, probabilmente riservandosi di modificare l’articolato nel dibattito parlamentare per la sua conversione in legge. Anche Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno espresso esplicito dissenso sui contenuti del decreto.
Ora è bene dire subito che l’intento del ministro di voler ridurre la precarietà nel mondo del lavoro è, a nostro avviso, condivisibile e merita un confronto costruttivo, di merito tecnico molto qualificato, ascoltando in audizioni in Parlamento Associazioni datoriali, sindacati e agenzie interinali, possibilmente senza contrapposizioni manichee fra sostenitori di tesi diverse. Pertanto, se si conviene che si debba contrastare l’eccessiva precarizzazione dei rapporti di lavoro, bisognerebbe riflettere bene se gli strumenti ipotizzati siano i migliori, o se si possa perfezionare con il più ampio consenso possibile il testo del decreto.
La lotta alla precarietà dovrebbe essere condotta colpendo alle radici il fenomeno, cioè tutte le situazioni in cui i lavoratori, pur avendone diritto, non hanno copertura previdenziale, non si vedono applicare il contratto collettivo firmato da organizzazioni sindacali realmente rappresentative, o addirittura sono costretti ad accettare contratti irregolari per lavorare, come ad esempio false partite iva, collaborazioni simulate, part time che mascherano invece rapporti a tempo pieno. Queste, lo sappiamo tutti, sono le condizioni in cui versano centinaia di migliaia di lavoratori in Italia, condizioni in cui si annidano la precarietà e gli abusi da correggere se si vuole incrementare il livello generale delle tutele applicabili in situazioni di sostanziale dipendenza.
Invece ci si dovrebbe chiedere se la battaglia contro la precarietà debba partire proprio dal contratto a termine e dalla somministrazione di lavoro, forme contrattuali che garantiscono un’applicazione piena e integrale di tutte le tutele fondamentali del lavoro subordinato. Certo, sarebbe possibile e necessario intervenire con alcuni correttivi anche per questi rapporti che rischiano di durare troppo a lungo. Non si potrebbe allora, per prevenire questo rischio, ipotizzare una soluzione con la quale modificare, riducendola, la durata massima che possono raggiungere questi rapporti per stimolare un approccio più responsabile di molti datori di lavoro, ed evitare così che la transizione verso la stabilizzazione lavorativa sia troppo lunga? Questa misura è certamente presente nel decreto, ma non è forse accompagnata da vincoli eccessivi che potrebbero farla apparire a molti inutilmente punitiva?
Si propone di reintrodurre la causale, un adempimento che – come l’esperienza di lunghi anni ha dimostrato – rischia di alimentare liti giudiziali e generare costi aggiuntivi per le imprese con una forte ripresa di contenziosi davanti ai Tribunali e conseguente aumento dell’incertezza nelle imprese.
Circa poi la penalizzazione per chi delocalizza la produzione, per tante aziende e per gli studi legali che le assistono, cosa si deve intendere esattamente per delocalizzazione? Nell’era della cosiddetta catena globale del valore, distinguere la razionalizzazione delle produzione dalla fuga in cerca di salari più bassi non rischia di diventare una questione interpretativa molto complessa e di non facile soluzione? Ad esempio, un’impresa che importi manufatti realizzati dalle sue partecipate all’estero, ma che continua ad assemblare in Italia il prodotto finito, è un’azienda che ha spostato la produzione, o è una multinazionale italiana con una catena globale del valore ? In Puglia, com’è noto, abbiamo qualche azienda calzaturiera del nord barese che è in queste condizioni ma bisognerà verificare se ha realmente goduto di una qualche forma di finanziamento pubblico.
Al contrario, vi sono imprese che producono all’estero, ma non in fabbriche di loro proprietà, perché i manufatti o i semilavorati arrivano da terzisti proprietari degli stabilimenti e dei loro macchinari. Queste aziende allora non sembrerebbero tecnicamente inquadrabili in imprese che hanno delocalizzato e pertanto, se mai avessero percepito contributi pubblici, non dovrebbero – il condizionale però è d’obbligo – restituire nulla; ma è anche vero che un tempo quei manufatti venivano realizzati da lavoratori italiani ed oggi quei posti di lavoro non esistono più nel nostro Paese.
Poi abbiamo in Puglia anche il caso di qualche azienda del comparto aeronautico che, pur impiegando nella sua fabbrica qualche centinaio di occupati facendo produrre loro un velivolo specifico, trasferisce ormai da tempo e in misura crescente alcune produzioni da quello stesso sito pugliese in suoi stabilimenti di Paesi comunitari a minor costo del lavoro dopo aver goduto però di finanziamenti pubblici. L’occupazione attuale del suo impianto non diminuisce nominalmente, ma si riducono le ore lavorabili. In tal caso cosa succede ? E se un’impresa che fosse in queste condizioni decidesse – per evitare la restituzione dei contributi ricevuti – di riportare in Italia determinate attività, verrebbe perseguita egualmente, o tale sua comportamento varrebbe come causale per l’estinzione del provvedimento di restituzione dei fondi ricevuti?
Insomma la casistica è elevata e merita approfondimenti rigorosi, ben sapendo peraltro che gli investitori esteri potrebbero essere anche molto perplessi da un mutamento di regole del mercato del lavoro e del sistema delle incentivazioni che potrebbero indurli a scartare l’Italia per loro nuovi investimenti.
Tutti al lavoro dunque – governo, Parlamento, imprese e sindacati – per una conversione in legge attraverso un confronto che si spera costruttivo e ponderato e soprattutto guidato dal proposito pienamente condivisibile, finalizzato a ridurre la precarizzazione nel mercato del lavoro.