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Fincantieri, immigrazione, Libia. Il braccio di ferro con Parigi spiegato da Giulio Sapelli

Giuseppe Bono

“Allons enfants de la Patrie!” Mentre a Parigi la marsigliese infervora i cuori dei cittadini per festeggiare la presa della Bastiglia uno dei più influenti giornali economici di Francia, il parigino La Tribune, tira una stoccata ai cugini italiani. L’ennesima, verrebbe da dire, in un periodo in cui Roma e Parigi non si sono risparmiate colpi. Nel mirino, per la seconda estate di seguito, c’è il colosso italiano nel settore cantieristico Fincantieri e il dossier per l’acquisizione del 50% di Stx, la società che controlla i cantieri di Saint Nazaire. Il tira e molla con il governo francese si era concluso in autunno con un accordo per l’acquisizione del 50%+1 delle azioni da parte di Fincantieri. Ora il quotidiano parigino riapre la partita pubblicando un rapporto di Adit, agenzia specializzata in intelligence economica, che parla di non definiti “legami o sospetti legami” fra Fincantieri e “organizzazioni militari” e introduce il pezzo con un titolo roboante “Una relazione troppo pericolosa per Naval Group?” L’azienda italiana ha risposto subito di voler agire per vie legali per tutelarsi dalle “accuse infondate” della stampa francese. Tra i “precedenti” di Fincantieri La Tribune cita anche i rapporti con Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega che in passato aveva fatto da mediatore per un accordo fra Fincantieri e la Libia di Gheddafi, poi non andato a buon fine, e ora è a centro dell’inchiesta sui finanziamenti al partito. Il tempismo della stilettata lascia pochi dubbi sulle intenzioni. “La Tribune è un giornale che non fa mai nulla per caso” chiosa ai nostri microfoni Giulio Sapelli, uno dei pochi storici ed economisti italiani che inizia la giornata con una ricca rassegna di quotidiani d’oltralpe. Con lui abbiamo cercato di capire le vere ragioni delle accuse francesi, e con il pretesto gli abbiamo chiesto dove porterà il braccio di ferro fra Italia e Francia su banche, immigrazione e controllo del Mediterraneo.

Professore da dove nascono secondo lei le accuse del quotidiano parigino?

La Tribune è un giornale che non fa mai nulla per caso. Se tira fuori questo dossier è perché dietro c’è un disegno dei francesi per rinegoziare l’accordo con Fincantieri, proprio ora che è arrivato il momento del passaggio delle quote. Non parliamo di navi da crociera, ma del futuro dell’elettronica navale per la Difesa, un’eccellenza italiana. Non è un caso che i francesi abbiano deciso di attaccare Fincantieri e non Leonardo.

A cosa allude?

Mi sembra chiaro che Giuseppe Bono fa paura ai francesi. Io lo conosco da molti anni, loro no, e vi assicuro che è una persona che sa tenere il punto. Inoltre questo accordo non è mai piaciuto all’establishment francese.

Di quale establishment parla?

Innanzitutto di quello militare, che sta vivendo una spaccatura con i vertici politici, non solo su questioni di budget. I vertici militari si aspettavano da Macron i mezzi per continuare all’estero la politica imperiale francese e sono rimasti delusi. Le tensioni si estendono anche al mondo giudiziario, come dimostrano le reazioni di sdegno alla decisione della Procura della Repubblica di ritirare fuori la questione del genocidio in Ruanda incriminando l’ammiraglio Lanxade.

E pensare che Macron ha sempre dato l’idea di saper trattare con l’establishment.

Con i militari il rapporto è stato incrinato fin dai primi giorni. Quando Macron, appena eletto, criticò pubblicamente il generale De Villiers, che aveva auspicato un aumento del budget per le Forze Armate, ci fu una reazione di grande scalpore, tanto che lo stesso generale decise di dare le dimissioni. Fu una bomba negli ambienti militari europei. Non era mai successo che all’elezione di un presidente della Repubblica seguissero le dimissioni del capo delle Forze Armate. C’è una spaccatura fra l’esercito e l’establishment politico, non solo su questioni di budget.

Torniamo all’articolo de La Tribune. Non le sembra un po’ forzato il riferimento alla Lega?

Quello è un siluro contro il governo, una risposta al conflitto che Matteo Salvini ha acceso con la Francia. I nostri rapporti con i francesi sono molto tesi, anche il premier Giuseppe Conte ha scelto di tenere il punto sulla questione dei migranti. E ha ragione: non si può parlare di condivisione dei migranti senza coinvolgere la Francia. I francesi non avranno 70 chilometri di costa come in Sicilia, ma hanno la Corsica e potrebbero aiutare di più.

In Italia il dibattito sull’immigrazione sta creando un clima poco salubre, fatto di tensioni e boutade non proprio istituzionali, tanto che il presidente della Repubblica ha ritenuto doveroso intervenire. Peraltro il braccio di ferro con Parigi non ha portato a nessun risultato. Chi ne sta uscendo peggio?

Stanno uscendo tutti malconci. Devo dire però che la Francia è una repubblica presidenzialista.  Non stupisce che un presidente della Repubblica si comporti come il primo ministro o come un re. In Italia Sergio Mattarella è il capo delle Forze Armate, non c’è dubbio. Ma se lo leggiamo attraverso la lente della nostra cultura costituzionale il suo intervento diretto, senza una più cauta opera di moral suasion, è stato piuttosto insolito. Se fossero vivi Leopoldo Elia o Alberto Predieri avrebbero sicuramente qualcosa da ridire. Auspico almeno che sul tema si apra un dibattito pubblico, possibilmente con toni diversi da quelli che sentiamo questi giorni.

Siamo a un punto di non ritorno nelle relazioni bilaterali con Parigi?

Queste tensioni nella storia diplomatica fra Italia e Francia sono normali. Nel 1859, prima ancora dell’unità d’Italia, Cavour insistette per rafforzare il porto di Genova del Regno di Sardegna per contrastare la concorrenza del porto di Marsiglia. È vero però che oggi abbiamo contenziosi su fronti diversi, dalle banche all’immigrazione fino all’industria della Difesa. Poi c’è la questione del Ceta, che riguarda il Canada e di conseguenza anche la Francia. Anche qui la posizione contraria del nostro governo è assurda: se c’è un trattato che difende i nostri prodotti è proprio il Ceta, che addirittura azzera le tariffe sui vini.

Come possiamo recuperare una sana diplomazia con i cugini francesi?

Affrontando le priorità. Tutto questo fumo serve a nascondere il modo in cui si sta scrivendo il trattato italo-francese, di cui questo governo italiano non si è ancora occupato, colpevolmente. Un trattato che stiamo scrivendo con una commissione composta da un lato da un ministro colto e intelligente come Bruno Le Maire, dall’altra da due privati cittadini come Franco Bassanini e Paola Severino. Due personalità di livello, non c’è dubbio, ma non si capisce perché il governo Gentiloni non abbia affidato un dossier così delicato alla Farnesina.

La crescente assertività di Macron nel Nord Africa non è piaciuta al governo italiano. Il premier Giuseppe Conte ha annunciato per il prossimo autunno una conferenza internazionale sulla Libia in Italia con tutti gli attori principali, americani compresi.

È un’iniziativa utilissima e intelligente, che avrebbe dovuto prendere fin da subito il governo Gentiloni. Se l’incontro di Helsinki fra Trump e Putin andasse bene coinvolgerei anche i russi. Non si può affrontare la questione libica senza il supporto dell’Egitto di Al-Sisi.

I viaggi Roma-Tripoli del governo gialloverde si fanno più frequenti. L’Italia può ancora dire la sua in Libia o è una partita solo francese?

Già solo il fatto che ci siano andati Matteo Salvini, un uomo esperto come Enzo Moavero Milanesi, un ministro come Elisabetta Trenta, che è molto esperta di intelligence, è da accogliere molto positivamente. Avremmo dovuto farlo prima. L’iniziativa di Marco Minniti con i sindaci libici fu ottima, ma restò isolata. Qui invece si sta muovendo un governo intero.

Il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani sarà in Niger dal 16 al 18 luglio con una delegazione di imprenditori al suo seguito. Investire in quel Paese in cambio di un più rigido controllo sull’immigrazione può essere la road map anche per il governo italiano?

Assolutamente si, anche quella partita non è persa. Ma dobbiamo essere consapevoli che andare a Niamey significa andare in uno dei cuori pulsanti dell’Unione monetaria dell’Africa Occidentale. In Niger c’è il franco africano, non possiamo andarci contro la volontà dei francesi. La via negoziale è l’unica per poter essere rispettati, i blitz servono a poco. Dobbiamo avvisare i francesi, altrimenti rischiamo di innescare un conflitto che non abbiamo la forza di gestire, perché l’Italia è troppo debole nell’Africa subsahariana.

Come possiamo tornare ad essere protagonisti in quella regione?

Il mio auspicio è che l’Italia consolidi la sua presenza in Kenya, che presto entrerà a far parte dell’anglosfera. Ora che gli inglesi usciranno dal mercato comune e torneranno all’Efta il Kenya tornerà ad essere il centro della loro politica estera in Africa. Noi italiani possiamo coltivare meglio le relazioni con questo Paese. I nostri docenti insegnano nelle università di Nairobi e i nostri imprenditori sono molto rispettati.

In questi giorni è arrivata una buona notizia per l’Italia: Roma ospiterà la sede dell’Unione per il Mediterraneo. Può essere il punto di ripartenza per dialogare con l’Africa mediterranea?

Tutto dipende dalle persone che ci lavoreranno. Spero che ai vertici mettano degli studiosi e non solo dei politici. Ricordiamoci che il dominio francese nel Nord Africa e nell’Africa subsahariana si deve anche ai libri di Ferdinand Braudel sul Mediterraneo. Da quelle pagine è nata una generazione di studiosi francesi del Mare Nostrum che è risultata fondamentale per l’azione di intelligence diplomatica ed economica. Invece di chiudere gli istituti italo-africani, come ha fatto il governo Gentiloni, dobbiamo iniziare a investire nella cultura.



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