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Così il governo è stato smentito sul taglio delle pensioni

Di Maio salvini

Irrazionale, probabilmente incostituzionale e punitivo di un ceto sociale in cui si colloca la classe dirigente di questo Paese, che ha contribuito al suo sviluppo economico ed alla crescita sociale: è questo il quadro che emerge dalle audizioni svoltesi nei giorni scorsi presso la Commissione lavoro della Camera, sui provvedimenti legislativi che dovrebbero modificare il trattamento economico delle pensioni. In particolare sulla proposta di legge governativa D’Uva e Molinari (primi firmatari) che si propone un ricalcolo contributivo dei trattamenti pensionistici superiori ai 90mila euro annui. I maggiori esperti di previdenza (attuari, economisti, giuslavoristi, rappresentanti di imprenditori, quadri e dirigenti, lavoratori) si sono succeduti di fronte ai parlamentari per esprimere un parere obiettivo, suffragato da analisi e dati certi, sul testo legislativo.

È stato chiarito, senza ombra di dubbio, che il cosiddetto ricalcolo delle pensioni medio-alte (definirle ‘d’oro’, è stato spiegato, è un espediente mediatico per denigrarle e sul quale vale la pena di soffermarsi), non è affatto un ricalcolo, ma solo una decurtazione dell’importo delle pensioni basata sul rapporto tra i coefficienti di trasformazione relativi alle età di pensionamento effettivo e quelli relativi alle età di pensionamento ‘riviste’ con criteri diversi ed attuali (con forti penalizzazioni per le pensioni di anzianità e quelle con 40 anni di contributi). Tutto ciò implica una rimodulazione delle ‘regole’ in modo retroattivo: un’operazione che può presentare una lesione della certezza del diritto e profili di incostituzionalità. Inoltre, soprattutto per le pensioni decorrenti dal 2019, il punto di riferimento è costituito dai requisiti previsti dalla riforma Fornero, proprio quella che i due partiti al governo volevano cancellare e che invece viene ulteriormente rafforzata in peius.

Qualcosa va detto poi sulle stime sugli incassi (o risparmi) previsti. L’operazione – ‘rischiosa’ anche dal punto di vista giuslavoristico – produrrebbe un ricavo calcolato da alcuni esperti in circa 300 milioni, ridotto a 150 milioni dalla stima indicata dal presidente dell’Inps, o elevato a 500 milioni secondo altri calcoli. Un ‘balletto’ di cifre sinceramente poco edificante e in grado di suscitare confusione anche fra gli addetti ai lavori. Cifre, comunque, che non tengono ovviamente conto dei prevedibili ricorsi alla magistratura contro il taglio dei trattamenti pensionistici così effettuato. Ricorsi, è stato argomentato nel corso delle audizioni, che avrebbero ottime probabilità di successo.

Da parte, ad esempio, di coloro che hanno fatto la ricongiunzione onerosa, il costoso riscatto di laurea o la contribuzione volontaria a proprio carico per raggiungere i requisiti. Per non parlare dei tanti lavoratori costretti a lasciare il lavoro per crisi aziendale o per quelli che hanno raggiunto i 65 anni, limite di età regolamentare nella Pubblica Amministrazione, collocati d’ufficio a riposo dall’amministrazione di appartenenza. E, ancora, per quelli che hanno dovuto (e devono) lasciare il lavoro per scadenza dei brevetti professionali a 60 anni, come i piloti d’aereo, i macchinisti dei treni, i piloti del porto, gli autisti di mezzi pubblici, le Forze Armate e i diplomatici con servizi in zone di guerra ecc.

Ma le audizioni sono state fondamentali – a monte dello smantellamento tecnico-giuridico della proposta di legge – anche per l’aver disinnescato quella vera e propria ‘mina sociale’ rappresentata dal termine ‘pensioni d’oro’. Un subdolo ed odioso tentativo di identificare chi percepisce una pensione medio-alta, come ‘titolare’ di una situazione di privilegio. In realtà i dati dimostrano che l’ingiustizia si annida proprio nella proposta di legge all’esame del Parlamento. Le categorie più colpite, infatti, sarebbero i pensionati di anzianità che hanno versato più contribuiti (Italia del Nord e in parte al Centro), i lavoratori precoci e le donne la cui età legale di vecchiaia è sempre stata, fino al 2011, di 5 anni inferiore a quella degli uomini. E i penalizzati – lo diciamo chiaramente e lo abbiamo denunciato in Commissione lavoro – sarebbero soprattutto le alte professionalità, cioè la classe dirigente del Paese. Senza dimenticare che almeno il 70% delle pensioni che verrebbero decurtate sono pagate al Nord dove prevalgono di gran lunga le pensioni di anzianità e questo dovrebbe indurre una quale riflessione politica ad almeno uno dei partiti di governo.

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