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Addio a Valentino Parlato in 19 foto d’archivio

Valentino Parlato
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Valentino Parlato (2002)
Eugenio Scalfari e Valentino Parlato
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Eugenio Scalfari e Valentino Parlato (1999)
Valentino Parlato
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Valentino Parlato (1999)
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Valentino Parlato (1999)
Valentino Parlato
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Valentino Parlato (2001)
Valentino Parlato
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Valentino Parlato (2003)
Carlo De Benedetti e Valentino Parlato
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Carlo De Benedetti e Valentino Parlato (2004)
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Valentino Parlato (2005)
Valentino Parlato e Gore Vidal
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Valentino Parlato e Gore Vidal (2002)
Luigi Spaventa e Valentino Parlato
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Luigi Spaventa e Valentino Parlato (2004)
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Valentino Parlato (2010)
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Valentino Parlato (2010)
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Valentino Parlato e Indro Montanelli (1992)
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Valentino Parlato (2011)
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Valentino Parlato (2011)
Valentino Parlato
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Valentino Parlato (2015)
Emanuele Macaluso e Valentino Parlato
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Emanuele Macaluso e Valentino Parlato (2017)
Valentino Parlato, Alfonso Gianni
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Valentino Parlato e Alfonso Gianni (2017)
Valentino Parlato e Franca Chiaramonte
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Valentino Parlato e Franca Chiaramonte (2016)
Valentino Parlato
Eugenio Scalfari e Valentino Parlato
Valentino Parlato
Valentino Parlato
Valentino Parlato
Carlo De Benedetti e Valentino Parlato
Valentino Parlato e Gore Vidal
Luigi Spaventa e Valentino Parlato
Valentino Parlato
Emanuele Macaluso e Valentino Parlato
Valentino Parlato, Alfonso Gianni
Valentino Parlato e Franca Chiaramonte

E’ morto oggi a 86 anni Valentino Parlato, giornalista, politico e storico direttore del quotidiano il Manifesto. Nacque nel 1931 a Tripoli.

Espulso dalla Libia per la sua militanza comunista, si trasferisce a Roma dove lavora per L’Unità, scalando le gerarchie del Pci, fino a divenire membro del Comitato centrale. Nel 1969 viene espulso dal partito comunista ed è tra i fondatori de il manifesto di cui è stato, a più riprese, direttore. Ha curato, tra le altre, l’edizione di opere di Adam Smith, Lenin, Antonio Gramsci e Gheddafi.

Ecco la sua biografia curata da Giorgio Dell’Arti:

Famiglia siciliana, di Favara, nell’Agrigentino. Il padre funzionario del fisco fu mandato in Libia a tener di conto. Iscritto al Partito comunista libico, nel 1951 fu espulso dal Protettorato britannico: “Ero studente in Legge: se fossi sfuggito a questa prima ondata sarei diventato un avvocato tripolino e quando Gheddafi m’avrebbe cacciato, nel 1979, insieme a tutti gli altri, mi sarei ritrovato in Italia, a quasi cinquant’anni, senz’arte né parte. Sarei finito a fare l’avvocaticchio per una compagnia d’assicurazione ad Agrigento, a Catania. Un incubo. L’ho veramente scampata bella”.

Università a Roma dal 1951, conobbe Luciana Castellina e si iscrisse al Pci: «Comincia la sua ligia carriera di “funzionario povero” nel più ricco apparato comunista d’Occidente. Lo fa seguendo la destra migliorista di Giorgio Amendola: è “un amendoliano di sinistra” passato alla Realpolitik. Alle elezioni del 1953 accetta di lavorare per la federazione di Agrigento. Poi, quando gli propongono di restare come funzionario e in prospettiva come futuro candidato al Parlamento, tentenna: è la sua morosa del momento, Clara Valenziano, che sarà sua moglie e da cui avrà due figli, Enrico e Matteo, a schiarirgli le idee. Se resti qui io ti mollo, gli dice in sostanza. Le donne, Valentino impara presto che conviene starle a sentire: Luciana, Clara, poi toccherà a Delfina Bonada, italiana nata in Svizzera che sarà la sua seconda moglie e madre di Valentina. Così torna a Roma. Trova lavoro all’Unità come corrispondente per la provincia» (Lanfranco Pace).

Portato da Pajetta a Rinascita come redattore economico, nel 1969 fu radiato dal Pci con gli altri fondatori del Manifesto: da questo momento la sua biografia coincide con quella del giornale. Partecipò alla realizzazione del primo numero (23 giugno 1969, edizioni Dedalo, 75 mila copie di tiratura) con Luigi Pintor, Aldo Natoli, Luciana Castellina e Ninetta Zandegiacomi. I direttori erano Lucio Magri e Rossana Rossanda. Il 28 aprile 1971 il Manifesto divenne quotidiano, Parlato ne fu direttore molte volte: dal 19 settembre 1975 al 30 novembre 1985 (in due periodi la sua direzione fu affiancata da altri direttori, secondo una concezione di “direzione condivisa” tipica del Manifesto: dal 18 febbraio al 3 luglio 1976 con Pintor, Ferraris, Vittorio Foa, Castellina e la Rossanda; il 3 luglio gli restarono vicine solo le ultime due, però solo fino all’1 marzo 1978), dall’1 gennaio 1988 al 30 luglio 1990, dall’1 ottobre 1995 al 30 marzo 1998.

Uomo originale e di notevole senso dell’umorismo, negli anni ha sostenuto, tra le altre cose, che i dirigenti di sinistra non possono avere in casa la colf, che le intercettazioni telefoniche vanno benissimo e non si devono limitare, ha appoggiato il governo Dini e anche il primo governo Prodi, ma non il governo D’Alema, si è congratulato con gli Agnelli quando hanno affidato la Fiat a Romiti, ha ammesso che il Manifesto accettò 60 milioni dal Psi di Craxi («un prestito, abbiamo restituito tutto»), ha approvato incondizionatamente che Armani avesse scelto il suo giornale per fare campagna giudicando il suo pubblico «molto adatto», ha tenuto una fitta corrispondenza con Enrico Cuccia (senza uno come lui, «che faceva da padre e tutore al sistema, ci ritroviamo con questo capitalismo e le sue tendenze vili, il fare soldi fine a se stesso»), da ultimo è stato sommerso da una valanga di lettere di contestazione dopo aver sostenuto che era un errore boicottare la Fiera del libro di Torino con Israele ospite d’onore. Ha soprattutto fronteggiato, con grande spirito pratico, le continue crisi finanziarie del giornale, che mediamente ogni due anni deve chiedere ai suoi lettori o sostenitori o simpatizzanti la carità di qualche miliardo di lire o di qualche milione di euro per andare avanti (questo nonostante che al Manifesto tutti senza distinzione prendano lo stesso salario: 1.200 euro più l’anzianità).

Nel dicembre 2007 il trasloco dalla storica sede di via Tomacelli: «Doveva succedere prima o poi. Mi porterò la mia vecchia macchina da scrivere…» (un’Olivetti 98). Ora la sede è in via Bargoni 6, zona Porta Portese. Ci sono andati con «un Mulas e un Vespignani, incorniciati, un vecchio manifesto con Valpreda e tanti ricordi. La bomba di Insabato, il rapimento di Giuliana Sgrena, le visite di Jane Fonda e Ciriaco De Mita, di Alessandro Panagulis ed Yves Montand. Fidel Castro invece dette forfait nel 96 e si scusò con un barile di rum. “Eccellente”, commentarono al terzo piano. È il liquore ancor oggi preferito da Parlato» (Paolo Brogi).

Nel 2012 è l’ultimo dei fondatori ad abbandonare la storica testata: «Il Manifesto è un giornale decaduto, ha perso fisionomia. Doveva rimanere un giornale partito e invece quel ruolo si è dissolto. E’ un giornale come gli altri, per giunta in difficoltà economiche. Generico e povero. Ed è mancato un dibattito forte per rinnovarlo» (ad Alessandra Longo).

Dopo Ingrao e Rossanda anche lui ha raccontato se stesso, non in un libro ma in un documentario di 52 minuti, Vita e avventure del Signor di Bric à Brac, scritto e diretto dal figlio Matteo insieme a Marina Catucci e Roberto Salinas. Al Manifesto ha dedicato Se trentacinque anni vi sembrano pochi (Rizzoli 2006), e La rivoluzione non russa. Quaranta anni di storia del manifesto (Manni).

Fumatore accanito, nel novembre 2007 dichiarò ancora 70 sigarette al giorno. Giudicò le limitazioni imposte da Sirchia un attentato alla libertà («Non escludo che, dopo le sigarette, si passi a vietare tutto il resto»).

Non possiede il cellulare.

Nella gallery le foto di Imagoeconomica e Umberto Pizzi

(Riproduzione riservata)


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