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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Marcello Zacchè uscito oggi sul quotidiano Il Giornale.

Domani il Corriere della Sera non sarà in edicola. L’assemblea dei redattori del quotidiano della milanese via Solferino ha ieri votato alla quasi unanimità (un astenuto) la proposta del comitato di redazione (la rappresentanza sindacale dei giornalisti).

Il nodo riguarda proprio la «via Solferino», ovvero il palazzo realizzato nel 1903 da Luca Beltrami proprio per ospitare la redazione del Corriere. Ebbene, un paio di giorni fa l’amministratore delegato della Rcs Pietro Scott Jovane, alle prese con un processo di risanamento, ha deciso di vendere lo stabile (insieme al connesso edificio di via San Marco) a un grande investitore istituzionale (gruppo Blackstone). Ma per accontentare la redazione, che della cessione del palazzo non voleva saperne, al punto da farne la propria linea Maginot, Jovane affitterà lo stabile dai nuovi proprietari, con un contratto di lungo termine (le ipotesi vanno tra i 12 e i 20 anni). Trovata la quadratura del cerchio, dunque? Nemmeno per sogno.

Ai giornalisti del Corrierone questa soluzione non garba affatto. La permanenza in Solferino, che la redazione considera addirittura «garanzia di autorevolezza» per la più importante testata nazionale, non è evidentemente il punto. O non lo è più. Su questo i giornalisti del Corriere non transigono: a chi gli fa notare che tutti i giornali possono traslocare lontano dal centro o dalla sede storica, come ha fatto per esempio il New York Times qualche anno fa, senza per questo diventare meno autorevoli, essi rispondono che chi non ha mai lavorato lì, al sacro numero 28 di via Solferino, «non può capire». E fine della storia.

Perché il Corriere non è solo un giornale, «ma un’istituzione». Anche qui difficile da capire. Ma anche ammesso che passi, la redazione nel proclamare lo sciopero per domani segnala un cambio di direzione: ora nel mirino è l’operato di Jovane, tout court.

L’accusa, secondo la linea del cdr approvata in assemblea, è che il manager stia svendendo per un piatto di lenticchie il patrimonio del gruppo. La cessione avverrebbe a prezzi attuali (100-120 milioni), molto svalutati rispetto al valore che il palazzo aveva prima della crisi economica e che tornerà ad avere (oltre i 200). Il canone d’affitto, invece, è a prezzi di mercato. Insomma, una follia che poteva essere evitata chiedendo ai soci qualche euro in più dei 400 milioni di capitale già raccolto, o alle banche qualche ulteriore dilazione.

Ma non è solo questo. L’accusa più pesante a Jovane è di non aver saputo fare, in un anno, altro che tagli e cessioni (di personale, di testate, di società e ora di immobili). Nulla sul fronte degli investimenti, nulla sulle strategie editoriali. E tutto fa pensare che lo scontro sia solo all’inizio, con il direttore De Bortoli chiamato prima o poi a prendere posizione.

Dall’esterno, difficile dire chi ha ragione, soprattutto se a scrivere qui è chi lavora nello stesso mondo. Ma l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un gruppo troppo innamorato di un suo passato morto e sepolto. Una collettività di professionisti che non trova il coraggio di accettare un nuovo modo di lavorare nell’informazione. Molto meno romantico e molto più faticoso.

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