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Il discorso con cui Enrico Letta ha presentato il suo programma di Governo, ieri alla Camera e oggi al Senato, può considerarsi perfetto nel suo genere. Anzi, perfino troppo. Un affresco strepitoso dell’antica arte della dissimulazione democristiana. Chi ha conosciuto a fondo la Prima Repubblica, in effetti, non ha potuto non condividere la critica dura fatta dalla Meloni ieri in Parlamento, a prescindere ovviamente dai riferimenti culturali specifici di quell’area politica.

La situazione, d’altra parte, è la stessa che in passato, almeno dal punto di vista della maggioranza eterogenea che sostiene l’esecutivo. A quel tempo vi erano la DC e i partiti laici, oggi PD e PDL. È chiaro, per giunta, che il bravo Letta non avrebbe minimamente potuto agire in modo diverso. Quindi, a lui va tutto l’apprezzamento possibile.

La mancanza di alternativa è, a conti fatti, la verificata analogia esistente tra passato e presente. Ieri era la situazione internazionale, oggi la crisi generale.

Già, la crisi generale. Proviamo a riflettere un momento.

Perché qui si nasconde il punto di maggiore debolezza del piano Letta: una via sottile e, perciò, un tantino deludente di depoliticizzazione della realtà. Mi spiego. In democrazia devono convivere sempre due esigenze essenziali. Il valore rappresentativo delle parti, che devono essere distinte tra loro, e il valore dell’intero, che deve costituire il fine di ogni parte.

Realizzare il bene comune, pertanto, non può significare, neanche quando si governa insieme, accontentare tutti. Ciò è impossibile, in fondo, non a causa della mancanza di soldi – problema comunque assolutamente dirimente – ma per le contraddizioni che comportano i singoli interessi concorrenti.

La DC poteva farlo fino a venti anni fa perché l’opposizione era un partito specificamente esterno alla democrazia liberale, ancorato formalmente al socialismo reale e fuori dai giochi di governo.

Adesso Letta ha davanti a sé una società diversa da quella: povera, lacerata, senza prospettive, per di più con pochi euro in cassa, nella quale, in linea di massima, tutti i cittadini sono accreditati allo stesso modo, anche i grillini.

Questa è la ragione per cui il suo discorso è stato così prevedibilmente inconcludente e intelligentemente inutile. Una neutralizzazione politica evanescente che ha sorvolato i nodi scottanti sul tappeto, giustizia e lavoro in primis, in nome della raggiunta panacea parlamentare.

Nel contesto odierno fare scelte precise è necessario per attuare il bene comune. O si punta sui sindacati o sulla produttività. O si investe sull’innovazione o sulle imprese esistenti, con il loro diverso target di competitività.

Non vorrei ci trovassimo a vivere l’èra Letta come un quinquennio in cui regnerà il letargo soporifero, in nome del quale, come nello spirito assoluto di Hegel, vincerà l’indistinto, e dunque sarà sovrano il nulla.

Noi abbiamo bisogno di politica. L’Italia ha bisogno di direzione audace. Se non è possibile riuscire ad averne una, perché mancano gli score percentuali, un Governo non può comunque fare a meno di sostenere una parte o l’altra degli interessi che lo sostengono.

L’importante valore di servizio di questa maggioranza, insomma, dovrebbe spingere Letta a scegliere le imprese contro i sindacati e la ricerca contro altre corporazioni super pagate, vedi ad esempio il cinema, e non ad imitare il doroteismo di ieri che sceglieva di non scegliere. È bene sapere che questo rischio c’è. Mentre la difesa della buona parzialità è, ad ogni buon conto, l’unica base operativa della buona politica di compromesso. L’alternativa, infatti, è l’immobilismo paludato.

L’Italia, nel contesto specifico della politica estera, ha bisogno poi non dell’europeismo prodiano, tra l’utopico e il faceto, ma della valorizzazione piena della propria posizione geografica, della sua specifica identità mediterranea e del superiore interesse nazionale rispetto a quelli degli altri partner. Stessa cosa vale per il patto di stabilità: occupiamoci di noi. Punto. E si lasci perdere Nino Andreatta, per cortesia, sicuramente grande economista e politico del XX secolo, il quale però non può rappresentare oggi un modello da riprendere nell’istanza dinamica e partecipativa della presente democrazia. Oggi quella è la parte sbagliata su cui sedersi, specialmente quando si sta obbligatoriamente dalla parte giusta.

La politica economica della sinistra DC aveva, infatti, un’ipocrisia di fondo: mascherava interessi individuali sotto il mantra dell’ecumenismo culturale dossettiano. Qui, invece, siamo nella Terza Repubblica, un mondo che richiede condivisione e larghe intese non per diluire i conflitti, facendo interessi privati, ma per gestirli con decisione, selettività e oggettività, per il bene di tutti. Lo ripeto, privilegiando non tutto, cioè niente, ma quello che si ritiene giusto, di volta in volta, di una parte o dell’altra della maggioranza disponibile.

L’Italia, in definitiva, si attende urgentemente decisione e selettività da questa importantissima pacificazione nazionale, non certo moderazione e attendismo inconcludente. E Letta, alla fin fine,  saprà andare risolutamente nella direzione migliore, perché ha le competenze e il potere per farlo.

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