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Aldilà dei numeri, che pure sono importanti, l’ultimo Economic surveys dell’Ocse sul Giappone uscito ieri fa sorgere il pensiero che si sia di fronte a qualcosa di più della solita enunciazione tecnico-contabile che interessa solo agli appassionati. Quasi che la terra dei samurai sia di fronte alla sfida terminale contro il mainstream economico del nostro tempo. Quello della crescita spinta dalla liquidità e dai tassi bassi, dalla sostenibilità fiscale accoppiata a una politica monetaria che annacqua i deficit del bilancio pubblico, della moneta-merce che sostiene il debito/credito privato e la turbofinanza degli ultimi trent’anni.

Il discorso sembra complesso, ma è molto semplice. Un grafico dell’Ocse lo racconta molto bene. Fatto 100 il livello dei prezzi delle azioni e del mattone giapponesi nel 1980, alla fine degli anni ’80 l’indice quotava 325 per le azioni e quasi 200 per il mattone. I prezzi erano letteralmente impazziti, pompati dalle grandi banche nipponiche che non sapevano, letteralmente, dove mettere i soldi.

Poi arrivò la crisi, una delle tante. Nei primi anni ’90 l’indice dei corsi azionari arrivò a 175, quello del mattone a 150. Il Giappone da allora iniziò a conoscere, unica economia avanzata al mondo, il Mostro che spaventa tutte le economie: la deflazione. In pratica il calo costante dei prezzi.

Nei vent’anni successivi, i prezzi non smisero di scendere. A fine 2010 i prezzi delle azioni quotavano un indice di poco superiore a 100, come nel 1980. Il mattone era avviato verso 50.

Ciò fece sperimentare ai giapponesi un’altra di quelle situazioni economiche che fino ad allora erano pura teoria: la trappola della liquidità.

Per farla semplice, questa trappola si verifica quando le persone o le aziende, pur avendo a disposizione sufficienti mezzi liquidi, evitano di spenderli perché si aspettano che i prezzi calino ancora e quindi rimandano l’acquisto. Venendo a mancare la domanda di spesa, il Pil ne risente, e quindi i prezzi calano ancora. Così all’infinito.

 Quello che sembrava un paradosso economico, in Giappone si verifica da un ventennio.

La deflazione portà con sé la fastidiosa controindicazione che fa aumentare i tassi reali e quindi il deficit pubblico. Che infatti negli ultimi vent’anni è cresciuto costantemente in Giappone portando il debito alla cifra monstre del 210% del Pil nel 2011, con previsioni di crescita fino al 230% secondo gli ultimi dati del Fmi.

Perché il Giappone non sia ancora fallito lo spiegano due circostanze: il fatto che gran parte del debito pubblico sia in mano ai residenti, e poi il fatto che la posizione netta con l’estero giapponese si robustamente positiva: il 52,5% del Pil nel 2011, con un saldo di conto corrente del 2% del Pil.

Ciò dimostra, qualora fosse necessario, che sono i debiti esteri a distruggere un paese, non quelli interni.

Di fronte a questo quadro, che vede anche una popolazione sempre più anziana, una spesa sociale crescente, la persistenza della deflazione (che aumenta il valore reale del debito giapponese), il nuovo premier ha deciso di portare avanti la sua sfida finale: dare alla banca centrale l’obiettivo di raggiungere un target di inflazione del 2%.

Per riuscirci la BoJ ha varato un piano di quantitative/qualitative easing che prevede i soliti meccanismi monetaristici, ma adottati in maniera estrema.

Innanzitutto la Banca centrale dovrà aumentare i suoi asset più di quanto abbia già fatto, quindi comprare titoli di stato su tutta la curva delle scadenze per mantenere tutti i tassi bassi.

Vale la pena notare come, finora, la Banca centrale giapponese, malgrado i numerosi interventi, sia stata relativamente parca, in valori assoluti, se la confrontiamo, ad esempio con la Fed. Quest’ultima, che nel 1999 aveva un bilancio di 500 miliardi di dollari, dopo la crisi del 2008 ha iniziato a correre fino ad arrivare a quota 3.000 miliardi. E la Bce, che sembra moderata, ha fatto pure peggio, visto che fra il 2011 e il 2012 ha persino superato la Fed sfondando quota 3.000 miliardi, ma di euro.

Il discorso cambia se utilizziamo come indicatore la quota di asset della banca centrale sul Pil. La Bce, dopo la BoJ, è la banca centrale con la percentuale più alta, pari 31,9% a fine 2012, a fronte del 33,6% della BoJ. La Banca of England arriva al 26% e la Fed “appena” al 18%.

Questo serve a dare un’idea di quello che la Fed potrebbe fare in futuro, se ne avrà voglia.

Il secondo punto rilevante del nuovo programma della BoJ è il raddoppio della base monetaria. A fine 2012 tale strumento quotava 138 milioni di yen. A fine 2014, quindi entro un anno e mezzo, arriverà a 270 trilioni di yen.

Quale sarà l’effetto di tale manovra è tutto da scoprire. La trappola della liquidità dovrebbe avere insegnato ai giapponesi che il cavallo non beve, se non ne ha voglia, a prescindere da quanto sia abbondante l’acqua.

Certo è che qualche effetto macroeconomico si produrrà e su questo il governo conta quando formula le sue previsioni sul deficit nei prossimi due anni, stimato in calo, sul debito, che dovrebbe stabilizzarsi, “visto che non è sostenibile”, come avverte l’Ocse, e infine sulla maledetta deflazione, che finalmente dovrebbe finire.

Dovrebbe appunto.

Ma aldilà dei numeri, come dicevamo, è il senso implicito di questa decisione estrema a segnare il punto di svolta delle decisioni giapponesi.

Raddoppiare la base monetaria, infatti, implica da un punto di vista squisitamente concettuale puntare sul valore di scambio della moneta assai più che sul suo ruolo di riserva di valore infinitamente tesaurizzabile. Quella moneta-merce, tanto deprecata da Keynes, che è il cuore del problema, quando si parla di credit crunch, mercati del credito inceppati, trappola della liquidità. Se si trattiene moneta, potendo contare sul suo valore intrinseco, specie in un momento deflazionistico, non si fa un buon servizio all’economia, questo dovrebbe esser chiaro.

Se il diluvio di yen in arrivo sul capo dei giapponesi (e di mezzo mondo di conseguenza, basta vedere l’andamento degli spread sovrani nell’eurozona in questi giorni) servirà a far capire a loro e a noi tutti che la moneta serve (ha valore) solo se la usi, possibilmente non comprando altra moneta o carta, allora la spada del samurai avrà colpito il cuore del problema.

Fuori dalla “virtualità” del sistema finanziario, la moneta non potrà che ritrovare la strada di casa, quell’economia reale per la quale la moneta è stata pensata e costruita.

In caso contrario assisteremo ancora una volta, con tutte le complicazioni globali del nostro tempo, all’ennesimo prolungamento dell’agonia della crisi. Si formeranno altre bolle e sarà sempre più complicato gestirne le conseguenze, visto lo stato globale dei bilanci pubblici nei paesi avanzati.

In questo caso l’ultima sfida del samurai si risolverà in un seppuku.

L’ultima sfida del samurai giapponese

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