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L’associazione dei pizzaioli d’Italia è l’ultima, in ordine di tempo, ha lanciare l’allarme: mancano 6 mila pizzaioli all’appello. Secondo il Fipe (l’associazione degli esercenti che aderisce alla Confcommercio) tanti sarebbero i posti da pizzaiolo vacanti nel Bel Paese, così come ripreso in questi giorni su KONGnews.it.  E’ l’ennesima notizia in questo senso che si aggiunge alle periodiche analisi fornite dall’elaborazione Excelsior di Unioncamere e a quelle della CGIA di Mestre che ha addirittura previsto la scomparsa di 400 mila mestieri e lavori artigiani nei prossimi 10 anni.

Ormai, sembra che dobbiamo rassegnarci a due tipologie di notizie, prevalenti, in tema di giovani e lavoro: l’aumento della disoccupazione giovanile e l’aumento contestuale dei mestieri e delle professioni (soprattutto manuali e artigiane) che nessuno vuole più fare.

La passiva constatazione di questi due dati, l’assuefazione mediatica a queste due realtà del nostro mercato del lavoro sembra produrre un unico risultato: impotenza e lassismo di fronte  la realtà. Eppure, il combinato di tali processi dovrebbe suggerire una soluzione, all’apparenza semplice. Facciamo incontrare i giovani disoccupati con il mondo del lavoro che c’è. Troppo difficile? Più facile gridare e raccogliere consensi sulla denuncia piuttosto che sulla proposta? Forse.

Tuttavia, soprattutto in tempi di crisi strutturale, come quella che stiamo vivendo, qualcuno deve pur cominciare ad uscire dal guscio del riflesso condizionato dell’indignazione continua e dello stupore sterile, e proporre soluzioni all’altezza dei tempi.

Dal punto di vista delle politiche del lavoro, quindi, la barra va spostata con forza verso le politiche attive del lavoro. Dobbiamo investire le risorse che anche in campo sociale, della formazione professionale e delle politiche del lavoro vengono sprecate, con grave danno per il mondo del lavoro e benefici per un élite di “addetti ai lavori”, verso la collocazione e ricollocazione di chi è senza lavoro, a cominciare dai giovani.

Cominciamo, allora, con stabilire quali sono le professioni e i mestieri vacanti per ogni provincia, individuiamo percorsi di formazione qualificata e mirata verso questi lavori, realizziamo un sistema di matching tra domande e offerte di lavoro sempre a livello decentrato, e vincoliamo i sussidi di disoccupazione all’accettazione di queste offerte di lavoro. Tutto da realizzare sul territorio coinvolgendo le aziende che decidono di aderire singolarmente, le associazioni d’imprese, i Centri per l’Impiego e le Agenzie per il lavoro, in un sistema integrato di promozione del lavoro pubblico e privato.  E magari facendo anche un pensierino, oltre un’accurata verifica, alle tante risorse dei fondi interprofessionali per la formazione continua, che potremmo dirottare allo scopo.

Su questa falsariga si potrebbero sviluppare ulteriori iniziative e proposte.  Vogliamo provarci Ministro Giovannini?

 

Il lavoro che c’è e le politiche del lavoro che mancano

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