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È sempre sgradevole dire “l’avevamo detto”, ma noi di Società Aperta al ruolo di “grillo (con la minuscola…) parlante” ci siamo predestinati: vediamo le cose prima degli altri, lo diciamo per tempo, ma in troppi non ci ascoltano e chi lo fa riconosce la nostra preveggenza sempre dopo, quando ormai è troppo tardi. Pazienza, ognuno ha il suo destino, nella vita. E il nostro continuerà ad essere quello di guardare alla politica come a una scienza le cui regole vanno conosciute e intelligentemente interpretate, se la si vuole capire e influenzare, nell’interesse del Paese.

Allora, l’avevamo detto che le elezioni sarebbero andate a finire così. Avvertimmo fin dal momento in cui si dimise per lasciare palazzo Chigi a Mario Monti, che Berlusconi sarebbe tornato sulla scena politica e che non sarebbe stato un fatto marginale. Non perché potesse vincere – ha perso 6 milioni di voti, non recuperato rispetto a ciò che comunque lui stesso aveva perso – ma perché avrebbe riportato il sistema politico lungo il solito asse maledetto del berlusconismo e dell’antiberlusconismo. Poi dicemmo che le primarie e la partita Bersani-Renzi sarebbero state la tomba del Pd, e così è stato. Ma non, come dicono tutti ora (scioccamente) che con Renzi la sinistra avrebbe vinto. Primo perché non sarebbe stata la sinistra, secondo perché i moderati italiani sono anti-comunisti e il voto al Pd, seppure con Renzi leader, lo avrebbero dato in misura molto marginale in più di quanto non abbiano fatto (altro sarebbe stato se il sindaco di Firenze, come suggerimmo, fosse uscito dal partito: mettendosi al centro del ring avrebbe intercettato voti a 360 gradi, evitando a Monti la brutta figura che ha fatto). No, l’errore esiziale di Bersani – un vero e proprio peccato di gola, commesso per la presunzione di aver già la vittoria in tasca – è di aver riaperto la strada al bipolarismo, invece di preoccuparsi di intessere preventivamente intese con il Centro nascente e con la parte più praticabile del Pdl (che avrebbe volentieri abbandonato Berlusconi, se solo gli fosse stata offerta una sponda). Ancora: dicemmo che altro avrebbe dovuto essere la “salita in campo” di Monti. E guardate che l’errore non è stato quello di allearsi con Casini e Fini, ma aver sbagliato i tempi (avrebbe dovuto farlo a settembre) e i modi (serviva un partito, non un comitato elettorale) dell’operazione. Infine, avvertimmo che Grillo avrebbe avuto un successo clamoroso, non semplicemente importante come tutti, protagonisti della politica e osservatori, avevano pronosticato.

Amen. Si sono create le condizioni perché fossero le ennesime elezioni della Seconda Repubblica – che pur essendo morta non era ancora stata sepolta – anziché le prime della Terza. E questo spiega ai molti che ci hanno chiesto il perché della nostra assenza dalla competizione elettorale, nonostante che alcune parole d’ordine ci fossero state “rubate” senza pudore (terza repubblica, fermare il declino, Stati Uniti d’Europa, ecc.), il motivo per cui siamo rimasti fuori: non era questa la nostra partita. Certo, a rimetterci è il Paese, ma noi più di dirlo, anzi di urlarlo, cos’altro avremmo potuto fare?

E adesso, direte voi? I rischi che corriamo sono enormi. Rischi, peraltro, già sottolineati sia dai mercati, tra rialzo dello spread (subito trasferitosi sui rendimenti dei Btp) e preannuncio di downgrading, sia dalle cancellerie europee (grande coalizione in Germania per dire che l’Italia clawnesca procura contagio) e sia dai media di tutto il mondo (che dipingono l’Italia come un pericolo per l’Europa). Il disastro dell’ingovernabilità, della quale la colpa ricade interamente su chi non è stato capace di capire che andava presentata agli italiani ben altra offerta politica per evitare che il 46% di loro schiumasse rabbia (13 milioni tra astensione e schede bianche e nulle, e 8,7 milioni di voti a Grillo, sommati insieme fanno 21,7 milioni di elettori su 47), deve essere assolutamente scongiurato.

Persino Berlusconi, di solito riluttante ad occuparsi di crisi economica – preferendo sostenere che trattasi di invenzione, e che comunque parlarne genera pessimismo – si è lodevolmente espresso con la cautela che il momento richiede, ha parlato di pericoli da scongiurare e di responsabilità che tutti devono assumersi in una emergenza come questa, e ha richiamato la necessità di far presto rispetto a tempi ridondanti delle procedure istituzionali. Viceversa Bersani, cui spettava di parlare per primo, ha balbettato, evocando un accordo in Parlamento con Grillo che il “serial killer” genovese ha respinto sprezzantemente al mittente (“Bersani morto che parla”), dando un serio colpo alla sua segreteria (nel Pd c’è chi auspica apertamente, o dice di attendersi, le dimissioni del “perdente che è arrivato primo”).

Come ha giustamente detto Marco Follini, uomo saggio e per questo rimasto fuori dalla contesa elettorale, inseguire un accordo con i grillini di volta in volta (stile Sicilia) è “demenziale”, non solo perché ci vuole qualcuno che voti la fiducia e perché si tratta di un meccanismo che non può durare, ma perché Grillo costringerebbe ad accettare alcune proposte che ci esporrebbero a pericoli economici e relazionali, oltre che al ridicolo. Già lo abbiamo fatto con Verdi e Lega – ha ricordato, con sacrosanta ragione, Giacalone – e i risultati a dir poco devastanti di un ambientalismo folle e del federalismo, si vedono marchiati a fuoco sulla pelle del Paese. Ora non possiamo ripetere l’errore di inseguire Grillo e le follie che propone. Non si normalizza quel voto scappato di mano alla politica (tradizionale quanto si vuole, ma pur sempre politica) scimmiottando chi lo ha saputo prendere.

Dunque, se si vuole evitare che torni “la tempesta sui mercati nel timore di un risveglio della crisi del debito di un’eurozona nuovamente debole, dopo un sonno durato mesi” (parole del Wall Street Journal), occorre decidere in fretta quale strada prendere: tentare di durare, con il rischio di una (ri)caduta che sarebbe letale, o cercare un accordo “minimo” e temporalmente definito (comunque breve, tipo 6 mesi) per preparare il Paese a nuove elezioni (su basi diverse)? Noi crediamo che la seconda opzione rappresenti il male minore. E credo che sia praticabile con un accordo solo tra Pd e Pdl (il Centro, come dice D’Alema, non è indispensabile), che devono trovare subito un’intesa sui collegi uninominali, a turno semplice (meglio) o doppio (va bene uguale), per riformare la legge elettorale, e devono riconfermare Napolitano al Quirinale. Il quale nel frattempo potrebbe dimettersi in modo da accorciare i tempi di rinomina (rispetto a maggio). Accordo che deve essere trovato immediatamente, senza indugio istituzionale alcuno, se davvero si vuole salvare il Paese. E per farlo si potrebbe addirittura usare il regime di “disbrigo degli affari correnti” in cui è tuttora funzionante il governo Monti. Certo, il parlamento ancora non c’è – a proposito, si riformino anche le procedure parlamentari che ci obbligano a buttare via un oltre mese di tempo dopo le elezioni – ma la riforma elettorale, condivisa con Pd e Pdl, potrebbe assumere i connotati di un documento politico approvato in consiglio dei ministri che diventerebbe un lascito per il governo “a termine” cui si darà vita una volta sistemate le Camere.

Ma perché la mossa funzioni, bloccando quel “passo verso l’ignoto” di cui parla il Financial Times e distraendo gli occhi di Moody’s da quell’incertezza e instabilità politica che potrebbe indurla a declassarci, c’è bisogno di altre due cose. La prima è l’avvio di una destrutturazione “bilanciata” dei due partiti della “grande coalizione”, con relativo ricambio della classe dirigente. In fondo, la Seconda Repubblica e il bipolarismo armato sono finiti con le elezioni, e Berlusconi e Bersani hanno perso 10 milioni di voti (rispettivamente 6 e 4): è abbastanza per lasciare ad altri il compito di aprire una stagione nuova. E poi se c’è Tosi che vuole lasciare la Lega ai nostalgici di Bossi per fare una Cdu italiana, perché altri non dovrebbero provarci a fare un partito dei moderati e uno dei riformisti che siano protagonisti della nascita della Terza Repubblica? Per creare la quale – e qui siamo alla seconda cosa indispensabile di questo passaggio così difficile della vita repubblicana – occorre arrivare ad una nuova Assemblea Costituente. La cui convocazione deve essere il vero “scopo” del governo che verrà e del rinnovo del mandato di Napolitano. Scommettiamo che così i mercati s’acquietano, lo spread si ridimensiona e il rating resta invariato?


Come evitare il caos e l'ingovernabilità

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