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E’ in arrivo alla Scala – dove sarà in scena dal 13 marzo al 3 aprile – un vero e proprio thriller di fantascienza, molto poco politically correct. Almeno nella ‘Grande Madre Russia’ di Lenin e Stalin ed, ora, di Putin. Si tratta di Cuore di cane di Alexander Raskatov, noto principalmente ai cultori di musica contemporanea. Figlio di un chirurgo – la sequenza chiave del lavoro che si vedrà alla Scala è in una sala operatoria – , nato nel 1953, dopo aver percorso un ‘cursus honorum’ che lo fece ammettere all’Unione dei Compositori Russi nel 1979 (quindi in età relativamente giovane), è stato una delle voci delle perestroika. Noto in Occidente per la cameristica e la musica sacra (specialmente lo Stabat Mater del 1988), dal 1990 opera per lo più all’estero (tra Stati Uniti, Francia, Canada, Austria) dove insegna e compone.

Sebbene la musica vocale occupi un posto di rilievo nella produzione, Cuore di Cane è a tutt’oggi la sua prima opera teatrale a essere stata completata e rappresentata; un precedente lavoro, Il pozzo e il pendolo (1991-93), tratto da Edgar Allan Poe, infatti, attende ancora di essere messo in scena. Due titoli thriller e, se si vuole, ‘gotici’, ma non privi di significato politico

Il soggetto di Cuore di cane, commissionato dell’Opera di Amsterdam che lo co- produce con La Scala e con l’English National Opera, è la vicenda narrata nell’omonimo romanzo di Michail Bulgakov (1925): uno scienziato trapianta il cuore di un cane moribondo nel cadavere di un uomo appena morto; nasce un nuovo soggetto dalle fattezze umane che ne combina di tutti i colori sino a quando il chirurgo fa l’operazione inversa, ma viene accusato di assassinio (finendo davvero male).

Il romanzo si offre a molteplici piani di lettura (dalla satira del nuovo uomo sovietico protagonista della Nuova Politica Economica negli anni Venti alla critica radicale degli eccessi della scienza). Non piacque alle autorità e restò proibito nell’URSS – la prima edizione in russo risale addirittura al 1987. Circolava attraverso il samizdat, la rete clandestina della dissidenza. E venne tradotto in Occidente. Bulgakov ne realizzò una versione scenica per il Teatro d’Arte di Mosca nel 1926 non ebbe miglior sorte e non poté essere rappresentata.

Al di là della cortina di ferro, Cuore di cane aveva già conosciuto una certa fortuna in trasposizioni per il teatro, per lo schermo (si possono ricordare il film di Alberto Lattuada del 1976 con Max von Sydow e Mario Adorf e quello per la tv di Vladimir Bartko del 1988) e anche per la scena musicale (l’opera da camera di Rudolf Rojahn del 2007).

Nella versione che si vedrà nella Sala del Piermarini, il libretto di Cesare Mazzonis, rielaborato dal compositore, segue con una certa fedeltà la materia narrativa e drammatica – talora anche la sostanza letterale – del romanzo e la distribuisce in sedici scene e un epilogo. La struttura interna dell’opera è pressoché simmetrica: la scena 7 si conclude con l’operazione che trasforma il cane Šarik nell’uomo (o semi-uomo) Šarikov; le scene 8-16 corrispondono alle imprese di quest’ultimo sino al nuovo intervento del professor Filipp Filippovi che riporta Šarikov all’originaria condizione canina. Anche l’epilogo corrisponde a quello del romanzo (dopo l’irruzione della polizia concludono l’opera con la presenza in scena di Filipp Filippovi e della voce del cane). Rispetto a Bulgakov, l’opera concentra con maggiore continuità la satira antitotalitaria (al di là degli specifici riferimenti al regime sovietico del tempo, sono manifesti i richiami alle ombre inquietanti della Russia contemporanea) e accentua il dramma del creatore che arriva a distruggere la propria opera.

Due giorno dopo la prima di Cuore di Cane alla Scala, alla Fenice arriva un altro giallo in musica “Il Caso Makropoulos” o “L’Affare Makropoulos” (a seconda delle traduzione dal moravo) di Leoš Janá ek, opera raramente rappresentata in Italia sino a quando una non eccelsa versione in traduzione ritmica italiana – curata da Ronconi e Bartoletti – una ventina d’anni fa la introdusse nei cartellini. Da allora si è vista a Torino, Bologna, Napoli e La Scala (con la regia di Ronconi) ma anche a Firenze ed altrove. In apparenza, il lavoro è un dramma poliziesco: tratta di un processo su una vertenza di successione che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una bellissima e giovanissima cantante – Emilia Marty – che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) ma cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il dramma di apek (l’inventore, tra l’altro, del personaggio, e nome, robot) dura oltre quattro ore ed è pieno di discorsi filosofici. I tre atti di Janá ek durano (come tutti i suoi lavori per la scena) 90 minuti e rendono meglio se, come nell’edizione vista ed ascoltata a Salisburgo, vengono rappresentati senza intervallo ma con brevissime pause tra un atto e l’altro. Sotto la coltre poliziesca, c’è, però, un profondo contenuto filosofico e religioso (piuttosto che politico): tratta del valore e della durata della vita come esperienza terrena. Emilia Marty ha 337 anni; ha avuto negli oltre tre secoli vari nomi tutti con le iniziali E.M.; suo padre, il negromante cretese Makropoulos, ha predisposto una lozione di lunga vita per l’Imperatore d’Ungheria, lei l’ha provata, è rimasta sempre giovane ma allo scadere dei giorni in cui si svolge l’opera deve bere di nuovo la pozione o morire. La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro i quali sono coinvolti nel maxi-processo. Quindi, la sua ricerca affannosa e la disponibilità di dare in cambio dati essenziali per la vertenza. È così bella che una delle controparti nel processo senza sapere di essere un suo bisnipote si innamora perdutamente di lei e che un ‘altra parte in causa si suicida quando apprende che suo padre (in possesso delle carte in greco) dà il documento in cambio di una notte di sesso con lei. Ma, anche sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In trecento anni, i suoi amici, i suoi amanti, le sue persone care sono sparite, mentre lei vagava da Paese a Paese cambiando sempre nome, restando sempre giovane ed affinando sempre le tecniche di canto. Quando ha il documento, lo cede alla fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo brucia, mentre lei invecchia in pochi istanti e muore. La scrittura orchestrale e vocale di Janá ek è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico slavo e il sinfonismo pagano di Richard Strauss, con influenze di Debussy (del quale Janacek conosceva bene sia “La Mer” sia “Pelléas”) sull’orchestrazione. Massimo Mila ha parlato di “un ininterrotto mormorio”, inafferrabile e inclassificabile.

Due thriller di fantascienza poco politically correct

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