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Settimana col fiato sospeso per le banche italiane. L’Fmi ha infatti avviato la fase finale dell’“ispezione” straordinaria sui crediti a rischio delle maggiori banche italiane. Una delegazione dell’organizzazione è da oggi a Milano per incontrare i vertici dei principali istituti nazionali e proseguirà nei prossimi giorni.

Quello che il Fondo guidato dalla francese Christine Lagarde vuole controllare è la politica degli accantonamenti dei crediti in sofferenza che, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Abi, hanno raggiunto a fine novembre il picco di 121,8 miliardi di euro. La questione principale da affrontare è soprattutto il grado di copertura delle sofferenze, ovvero gli accantonamenti che le banche devono prudenzialmente fare in bilancio a copertura dei rischi creditizi. Accantonamenti che, secondo l’esito della missione dell’autunno 2012, il Fondo Monetario ha giudicato insufficienti. Ai rilievi del Fmi ha replicato duramente l’Associazione Bancaria Italiana (Abi) che ha evidenziato l’impossibilità di paragonare contabilmente il trattamento dei crediti in sofferenza delle banche italiane rispetto a quelle degli istituti di altri Paesi europei.

Il nodo, a giudizio dell’Abi, sta nell’assenza di “criteri uniformi di giudizio” nella definizione di crediti in sofferenza tra i vari Paesi europei. Elemento che, per esempio, fa ritenere incomparabile la posizione delle banche italiane rispetto a quelle spagnole che, nello specifico, non comprendono tra i crediti deteriorati anche i prestiti “ristrutturati” (come invece avviene in Italia).

Dello stesso parere anche Mediobanca. In un report dell’Istituto di Piazzetta Cuccia curato da Antonio Guglielmi si legge infatti che “valutazione corretta dei collaterali, trattamento fiscale dei Loan Loss Provision (Llp) e distorsioni legali sul recupero crediti rendono l’Italia un caso diverso, ma non necessariamente peggiore. Il problema italiano è l’alto stock di crediti la cui solvenza è a rischio, l’85% del capitale, più della definizione contabile di Npl (Non performing loan) o della copertura. Crediamo che il dibattito sull’opportunità del bad bank italiano crescerà”.

Alla ricerca di un’armonizzazione della qualità degli asset

“Controllando le differenze contabili nella definizione della qualità di un asset in Europa – sottolinea Gugliemi – abbiamo concluso che l’armonizzazione dovrebbe incentrarsi si una definizione più ampia dei crediti a rischio. Questa dovrebbe includere tutte le categorie dei crediti italiani a rischio (sofferenze, incagli, ristrutturati/ in ristrutturazione, scaduti) e allargare la definizione di prestiti a rischio scaduti dopo 90 giorni in altri Paesi, criterio dominante per la classificazione di prestiti Npl in Europa”.

La definizione di crediti a rischio (impaired) in Italia è “più ampia di quella data in molti Paesi europei, perché comprende l’insolvenza, la difficoltà finanziaria temporanea, la ristrutturazione (con o senza perdite per il creditore) e i pagamenti scaduti. Anche sui crediti scaduti, l’Italia cerca di essere in linea, se non avanti, rispetto agli altri Paesi europei”, si legge nel report.

Le attuali impostazioni di Bankitalia specificano che, dopo 90 giorni di arretrati, “un prestito deve essere almeno classificato come scaduto, in linea con le best practice europee. Comunque, il management ha la facoltà di classificarlo come incaglio o sofferenza anche con un solo giorno di ritardo nel pagamento”.

Le sofferenze sono ad ogni modo comprese nelle quattro categorie italiane

Secondo Guglielmi di Mediobanca, “il distress (la sofferenza) è presa in considerazione in un modo o nell’altro nelle quattro categorie. Quindi, crediamo che la possibilità di non inquadrare una situazione di sofferenza in una delle quattro categorie italiane sia limitata (NPLs, doubtful, restructured and past due). E’ per questo che non condividiamo le critiche sulla identificazione in ritardo dei crediti problematici in Italia. Fuori dal Paese, domina la regola del 90esimo giorno come criterio principale per inquadrare un credito come rischioso, permettendo la classificazione come Non-Performing e l’assegnazione di una probabilità del 100% di fallimento. D’altro canto – proseguono – i crediti prima dei 90 giorni e quelli restructured sono di solito considerati buoni al di fuori dell’Italia, e non a rischio. Perciò, crediamo che una comparazione omogenea dei criteri di qualità debba includere tutte le categorie di crediti a rischio in Italia (sofferenze, incagli, ristrutturati, scaduti) e un allargamento della definizione europea di credito a rischio in altri Paesi”.

Sebbene la maggior parte delle banche europee “non riveli il totale dei crediti ristrutturati che ha in pancia e li consideri come performing in certi casi, abbiamo deciso di considerare questa categoria per le banche italiane perché la definizione implica un deterioramento della situazione finanziaria del debitore, e l’evidenza passata dimostra che il progresso verso ‘performing’ rappresenta sono una percentuale limitata dello stock complessivo”.

L’indice armonizzato sulla copertura a rischio

La copertura per i crediti deteriorati delle banche italiane è al 46%, “in linea con le banche tedesche. Dato che la maggior parte delle banche europee aggiungono le previsioni basate sul portafoglio agli asset a rischio, crediamo che sia corretto aggiungere le previsioni generiche per i crediti in questione. Ad un livello aggregato, calcoliamo che il campione delle banche italiane sotto esame ha riportato una copertura del 46% dei prestiti dubbi del 2011, variando dal 30% della Bp e della Crg al 53% dell’Isp. La media del 46% non è diversa da quella che troviamo in Germania (Cbk al 46% e Db al 44%) e posizionerebbe l’Italia anche leggermente avanti rispetto alla media nordica”, conclude il report di Mediobanca.

Perché le banche italiane hanno il fiato sospeso per la missione del Fmi

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