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Non più solo Mali, l’incendio si estende e tocca l’Algeria, il sud della Libia, sfiora il Marocco e la Tunisia. L’intervento francese non ha niente a che vedere con il colonial­ismo, anche per­ché c’è stata una richi­esta esplicita di inter­vento da parte dei gov­erni africani, lo ha riconosci­uto anche Andrea Ric­cardi che con la diplo­mazia par­al­lela della Comu­nità di Sant’Egidio, durante la guerra civile degli anni ’90, tentò di medi­are tra gli islamisti del Fis e il regime algerino. ”Conosco molto bene il Mali e ho l’onore di averci ripor­tato l’Italia. Il Mali è spac­cato in due. La Fran­cia ha deciso l’intervento mil­itare. Qual­cosa andava fatto e loro conoscono il ter­reno, però sti­amo attenti: lì inizia qual­cosa che non finirà facil­mente”, ha dichiarato a Tgcom24 e ha con­cluso: ”E’ un nuovo Afghanistan”. Ha ragione.

Il peri­colo nel Sahel è serio. L’offensiva delle forze fon­da­men­tal­iste e terroriste, con Al Qaeda in prima fila, punta a creare un nuovo sul­tanato ricco di risorse e col­lo­cato in uno snodo che minac­cia diret­ta­mente l’Europa. Ecco per­ché neanche l’Italia si può tirare indi­etro. Bene. Chiar­iti gli equiv­oci, messi a tacere i pregiudizi antifrancesi e un paci­fismo fuori luogo (anche e soprattutto quando si man­i­festa tra gli entu­si­asti sosten­i­tori della guerra in Iraq), tolte di mezzo le stru­men­tal­iz­zazioni elet­toral­is­tiche per cui i will­ings di George W. Bush oggi sono gli unwill­ings di François Hol­lande per ragioni di mero schiera­mento par­titico, chiedi­amoci se i prece­denti inter­venti nella guerra al ter­rorismo islam­ico hanno inseg­nato qual­cosa. E come l’operazione Ser­val (dal nome del gat­topardo africano dif­fuso nell’area sub sahar­i­ana) deve far tesoro degli errori e delle sconfitte.

Se è un nuovo Afghanistan, allora bisogna imparare la lezione pro­prio dall’Afghanistan. Lo ricorda Le Figaro: “I reg­g­i­menti mil­i­tari francesi imp­ie­gati in Mali sono pas­sati quasi tutti per il teatro afghano, quindi non si lascer­anno cer­ta­mente sor­pren­dere dalla qual­ità mil­itare del loro nemico”. Gli strateghi transalpini sanno che com­bat­tenti così agguer­riti come quelli dell’Aqmi (Al Qaida nel Maghreb islam­ico) anche se fos­sero solo poche centi­naia, hanno alle loro spalle la parte­ci­pazione in tre con­flitti: Afghanistan, Iraq e Libia; sono maestri della guerra asim­met­rica; uti­liz­zano il totale dis­prezzo per le vite umane come arma di ricatto e il dis­degno della pro­pria vita come defla­ga­tore; si con­fon­dono con la popo­lazione civile. Tutti van­taggi com­par­a­tivi sul piano stret­ta­mente mil­itare. Non c’è alcuna pos­si­bil­ità che si fac­ciano dis­trug­gere dagli attac­chi dei Rafales e dei Mirages come avvenne con i blin­dati di Gheddafi alle porte di Bengazi. Hol­lande lo sa e ha optato quasi subito per l’invio di truppe al suolo, a com­in­ciare dai reparti della Legione straniera che hanno espe­rienza di com­bat­ti­mento tra le sab­bie del Sahara.

“Sradi­care gli islamisti non sarà facile”, ammette il Figaro. E il prima pos­si­bile bisogn­erà pas­sare il tes­ti­mone ai sol­dati africani: i tuareg del Mlna che sono filo francesi e deb­bono pren­dersi la rivincita, e i mil­i­tari del Mali che sanno com­bat­tere in quel ter­ri­to­rio deser­tico. Sec­ondo i mil­i­tari francesi, non sono di nes­suna util­ità gli eserciti dei paesi cen­troafricani che si adde­strano nelle giun­gle o nelle città.

Nes­sun con­tin­gente europeo, ammesso che qualche Paese possa offrire qual­cosa di più della logis­tica, saprebbe come muoversi. Parigi vuole appog­gio politico dall’Europa, sostegno da Lon­dra e sup­porto tec­no­logico, soprat­tutto da Wash­ing­ton. L’accordo mil­itare franco-inglese, una sorta di riedi­zione della stor­ica Entente Cor­diale, venne fir­mato in Nor­man­dia ed è oper­a­tivo dal 2000.

Ma la lezione dell’Afghanistan non è solo mil­itare. Per­ché è chiaro che l’intervento deve avere un chiaro obi­et­tivo politico e una dimen­sione anche eco­nom­ica e isti­tuzionale. Il Mali era stato un (breve) ten­ta­tivo di democrazia africana. Non si tratta di esportare mod­elli dall’esterno, ma di rianimare quel che è stato schi­ac­ciato e messo al tap­peto dall’offensiva islamista. E questa volta è in gioco diret­ta­mente l’Unione euro­pea, ancor più degli Stati Uniti. “La soli­tu­dine francese non è sosteni­bile, a meno di svuotare la Ue del suo senso”, ha scritto Gilles Kepel. Sec­ondo le Monde, “ci si attende un seg­nale forte, un gesto all’altezza della posta in gioco, una mobil­i­tazione eccezionale degli europei”. E qui c’è l’altra lezione da imparare, quella della Libia.

Non è vero che l’offensiva islamista è una con­seguenza della caduta di Gheddafi. Era in corso da tempo, da oltre dieci anni. Non è vero che la presa di ostaggi in Alge­ria è anch’essa un’altra ricaduta del dis­faci­mento libico. Da almeno un decen­nio i ter­ror­isti islam­ici si finanziano con i rapimenti e il pagamento del riscatto, soprat­tutto quando sono in ballo gli occi­den­tali. E’ vero che il crollo del regime libico ha aperto il vaso di Pan­dora. Armi, combattenti, mer­ce­nari, tutto ha rafforzato i jihadisti. Per­ché in Libia l’intervento mil­itare è stato fret­toloso e ancor più fret­tolosa la fuga dopo la vitto­ria. Pack and run, come dicono gli amer­i­cani, è diven­tata la parola d’ordine. Invece, era com­pito dei paesi europei e della Nato restare a garantire la sicurezza e a costru­ire una ragionev­ole sta­bil­ità. L’errore è stato fatto. Adesso è fon­da­men­tale non ripeterlo. Il costo sarebbe altissimo, non solo in Africa, ma in Europa.

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