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Ieri si è tenuto alla Link Campus University, promosso dalla rivista Formiche e dal Centro Studi “Gino Germani”, un incontro a porte chiuse sul tema “Il triangolo della tensione: Iran-Israele-Stati Uniti”.

Per Formiche e Formiche.net non è un tema nuovo, sia per il nostro interesse generale per la geopolitica sia per la nostra particolare attenzione all’evoluzione recente delle concezioni strategiche Usa, il cui “shift” (cambio di paradigma) è ormai in corso da due anni, attraverso la linea Clinton-Obama che ci riguarda da vicino in Nord Africa e Medio Oriente. Senza il confronto con questa nuova realtà, a sua volta figlia di equilibri globali mutati (primo fra tutti, l’ascesa della Cina a grande potenza), la politica estera italiana e quella europea rischiano il velleitarismo, la subordinazione e l’irrilevanza.

Con la regola di Chatham House, hanno partecipato al dibattito Sergio Germani (direttore del centro studi Gino Germani), Marco Carnelos (coordinatore del processo di pace in Medio Oriente per la Farnesina), Germano Dottori (docente alla Luiss), Franco Frattini (ex ministro degli Esteri), François Géré (direttore dell’Institut Français d’analyse strategique), Ely Karmon (dell’International counterterrorism center di Herztliya in Israele), Carlo Panella (giornalista), Nicola Pedde (direttore dell’Institute for global studies) e Cosimo Risi (rappresentante permanente presso la conferenza del disarmo di Ginevra).

Tre sono i punti che andrebbero sottolineati, a bilancio della giornata.

Primo, entrambi gli attori regionali (Israele e Iran) sono vittime di una sindrome di accerchiamento. Gerusalemme guarda con un certo sospetto alle aperture islamiche di Obama, ma soprattutto ha perso i riferimenti regionali, quegli autocrati che, pur dietro la retorica antisionista, riuscivano a filtrare pressioni fondamentaliste che oggi, attraverso la democrazia post-primavera araba, rischiano di imporsi dall’Egitto alla Turchia passando per la futura Siria post-Assad. Teheran da parte sua è isolata in un mare arabo-sunnita in cui è percepita come un corpo estraneo, con la fragile alleanza siriana messa a dura prova dalla guerra civile; a sua volta, essa vede nell’Arabia Saudita la principale rivale petrolifera, economica e di sicurezza.

Secondo, questa “doppia sindrome” sembra elidersi, fomentando una specie di stasi strategica. È singolare, è stato notato, che Netanyahu da due anni brandisca la minaccia di un intervento militare, quando da sempre il modus operandi israeliano (dall’attacco al reattore irakeno nel 1981 a quello siriano nel 2007, passando per una miriade di operazioni speciali) è: “prima attaccare, poi discutere” (o perfino, negare…).

Terzo, il pallino resta in mano agli Stati Uniti. Anche nel negoziato nucleare, è alla potenza militare Usa che l’Iran guarda, più che alle sanzioni del quintetto del Consiglio di sicurezza (più la Germania) che tratta il dossier dell’arricchimento dell’uranio. La dottrina di impiego delle forze speciali Usa schierate nel Golfo e pronte ad intervenire in caso di escalation è molto più “politica” di quella israeliana, che mira solo alla distruzione delle infrastrutture militari. Washington punta, in caso di conflitto, a distruggere la stessa catena di comando, creando un vuoto di potere che è una precondizione di regime change.

C’è poi una quarta dimensione di questo “triangolo della tensione”. È la contrapposizione ideologica e messianica che nasce da quella che è stata definita “essenza strategica apocalittica” del regime iraniano. Non tutti i discussant hanno aderito a questa visione pessimistica, per cui Teheran sarebbe un attore revisionista (al pari del Terzo Reich), fautore della distruzione dell’ordine mediorientale con metodi aggressivi, dall’utilizzo di frazioni terroristiche al riarmo missilistico, alla dotazione di armi nucleari. È una valutazione però che, almeno come prospettiva, è rientrata nelle analisi di diversi esperti e che nasce da una considerazione “realistica” per nulla “messianica”: l’Iran è una media potenza che mira a farsi riconoscere come interlocutrice per la definizione dell’ordine mediorientale.

Da chi vuole farsi riconoscere? Sicuramente dagli Stati Uniti, a cui la seconda generazione laica al potere si rivolge apertamente, senza i timori e le ritrosie della prima generazione clericale. In teoria, lo chiede anche all’Unione europea, che ha forgiato il contenitore e il metodo (quello del dialogo multilaterale) ma ancora non riesce a individuare i contenuti premianti per farlo diventare di successo. L’Iran infatti non considera il capitolo nucleare come un capitolo isolato, ma come un aspetto di una più vasta contesa regionale in cui Teheran (“piaccia o non piaccia”, è stato detto) è un player importante, al pari della Turchia e dell’Egitto. Ecco perché vorrebbe una risposta geopolitica complessiva alle sue pressioni, risposta che ancora Ue e Stati Uniti faticano ad elaborare.

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