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E’ la fine della Seconda Repubblica. Un autentico tsunami della politica italiana che, come nelle peggiori fasi di transizione, determina un primo risultato: l’ingovernabilità.

Si sono scontrate inesistenti culture politiche in una battaglia incentrata sul pregiudizio e sotto l’azione di una crisi morale, sociale, economica, politica e culturale rappresentata dalle seguenti cifre: il 25 % degli elettori non hanno partecipato al voto; oltre un milione di schede bianche e nulle e il trionfo previsto, ma non nei termini attuali, di un movimento, quello di Grillo, che diventa la prima forza politica alla Camera e la terza al Senato.

Trattasi di un fenomeno nuovo e diverso nella storia politica italiana che andrà analizzato con molta attenzione a partire dall’esame del blocco sociale e culturale che lo alimenta, con consensi distribuiti su tutto l’arco dell’elettorato, a partire da quel 35 % di disoccupazione giovanile che, al Nord come al Sud, è stato probabilmente uno dei fattori decisivi del suo successo. “Homines novis” e sconosciuti sono attesi alla prova dell’esperienza parlamentare: sono stati portati in Parlamento da un guru che ha introdotto un nuovo sistema di comunicazione nella politica, restando esterno al luogo delle scelte legislative,.

Scompaiono forze storiche come quella dei radicali e quella di più recente conio dell’Italia dei valori di Di Pietro, la cui alleanza con Ingroia e il partito dei giudici, presentatasi al giudizio degli elettori, è stata sonoramente bocciata. E ora, mentre Ingroia annuncia, senza alcun pudore, che resterà a svolgere il doppio ruolo di politico e di magistrato, al trattorista di Montenero di Bisaccia si apre il difficile mestiere dell’avvocato, sperando che non sia quello delle “cause perse”.

Pdl, PD e UDC in un colpo solo perdono oltre 11 milioni di voti quasi tutti riversati, nell’astensione e/o nel voto al movimento cinque stelle. Per l’UDC è evidente pure la trasfusione a favore del più attraente Monti.

Blocco al Senato e ingovernabilità sono accompagnati da due grandi anomalie, mai presenti prima nella storia della Repubblica. Da una parte, il primo partito alla Camera, è guidato da un leader extra parlamentare, Beppe Grillo, che si definisce portavoce o megafono degli eletti e degli elettori che hanno riversato su di lui la rabbia e la frustrazione di un Paese che non ce la fa più. Dall’altra, quella di un Presidente del Consiglio uscente, senatore a vita a capo di un partito “civico” che ha perduto per strada i suoi alleati più forti, gli stagionati Fini e Casini.

Avevano sperato in un tram chiamato desiderio. Il loro sogno si è trasformato in un incubo e quel tram in un lugubre carro funebre. Per Gianfranco Fini é la morte politica e la scomparsa dallo scranno parlamentare: dalle stelle alle stalle. Per Casini, il funerale del suo partito sceso sotto il 2 % e con una lunga fila di cadaveri lasciati sul campo: dal segretario facente funzione Lorenzo Cesa a Rocco Buttiglione e alla povera transfuga Binetti. Casini è riuscito a perdere quasi 1.500.000 voti, dai 2.050.229 del 2008 ai 608.292 del 2013. Un disastro di guida politica, espresso dall’ex allievo in servizio permanente effettivo, prima di Bisaglia e poi di Forlani.

Esecutore testamentario? Il professore della Bocconi, senatore a vita Mario Monti che, solo per il rotto della cuffia, alla Camera e al Senato riesce a superare le soglie di sbarramento e a portare un manipolo di fedelissimi (?!) in Parlamento.

Unico risultato raggiunto: contribuire in maniera decisiva alla sconfitta del centro-destra che, ancora una volta, ha dimostrato di essere vivo e vegeto nonostante la profonda emorragia di voti (- 20% rispetto al 2008). Senza Monti e lo smemorato Giannino i moderati sarebbero ancora maggioranza.

A Mario Monti, Berlusconi aveva offerto di guidare l’area dei moderati sotto le insegne del popolarismo europeo. Noi stessi eravamo pronti a sostenere questo progetto. Il bocconiano gradito ai poteri forti europei ha preferito correre in proprio, subendo il veto di Casini sulla DC e ora rischia la perdita del credito su di lui riversato da Napolitano e Bersani rimasti drammaticamente senza stampella, o, per lo meno, con un supporto insufficiente alla bisogna.
La presunzione del Professore gli ha fatto perdere la presidenza del Consiglio e, probabilmente, anche quella al supremo Colle. Romano Prodi è pronto in lista di attesa.

Il Cavaliere ha combattuto forse la sua ultima battaglia riuscendo in un’impresa memorabile alla sua età: un recupero di consensi in meno di due mesi di campagna elettorale che ha dell’incredibile. E, così, dopo la sesta volta, egli rappresenta ancora un terzo dell’elettorato italiano che la sinistra continua a disprezzare dall’alto di una presunzione intellettuale incomprensibile, ridicola e distruttiva.

Doveva essere una passeggiata per Bersani e compagni e invece, solo per una manciata di voti alla Camera (+0,4 % pari a + 124.000 voti) riesce a lucrare la rappresentanza bulgara di una legge, il porcellum, degna della vituperata legge Acerbo di mussoliniana memoria; al Senato a essere sconfitto in tutte le regioni chiave: Lombardia, Veneto, Sicilia e persino nelle Puglie del garrulo governatore Nichi Vendola, annunciato futuro ministro. Alla fine, 3.700.000 voti in meno di quelli avuti da Veltroni alle elezioni del 2008 e la montante rabbia dei militanti per il mancato utilizzo del giovane Renzi.

La Lega subisce un tracollo enorme nel Veneto e, complessivamente, a livello nazionale (1.600.000 voti in meno rispetto agli oltre tre milioni del 2008) anche se la vittoria ( all’ora in cui scrivo sembra confermata) di Maroni in regione Lombardia rinsalda l’alleanza con il Pdl e tiene in vita il sogno della macroregione padana. Si aprirà, in ogni caso, al suo interno un confronto chiarificatore che seguiremo con molta attenzione.

Aspettiamo le prime mosse che competono a chi formalmente ha il compito di compierle. Se Bersani, forte di numeri falsati rispetto alla rappresentanza reale nel Paese, pensasse di chiudere la partita istituzionale ( Presidenza delle due Camere e presidenza della Repubblica) alla stessa maniera con cui Romano Prodi fece nel 2006 ( il pienone a favore della sinistra) e, magari, strizzando l’occhio ai grillini, credo che stavolta dal voto di protesta l’Italia rischierà molto di più della simbolica discesa in campo delle massaie con le pentole di sudamericana memoria, essendo a rischio la stessa tenuta unitaria del sistema Paese.

Da democristiani, impegnati oggi più di prima alla costruzione della sezione italiana del PPE, con quanti sono interessati a riportare il confronto politico sul piano delle culture reali esistenti nella nostra storia e in Europa, seguiremo con molta attenzione e da osservatori partecipanti ciò che accadrà nel Parlamento e nel Paese nei prossimi giorni.

Ettore Bonalberti
Direzione nazionale DC
Venezia, 26 Febbraio 2013

Lo tsunami del voto

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