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Pubblichiamo un articolo uscito sul sito dell’Ispi

All’inizio della crisi finanziaria internazionale, lo spavento alimentava la cooperazione globale. Un rinnovato G20 aveva obiettivi ambiziosi: riformare la finanza, riequilibrare lo sviluppo, tenere liberi i mercati favorendo la ripresa dei commerci, rafforzare il Fmi, rilanciare il Wto. Una grave crisi economica può incentivare a cooperare nel rimediare e riprendere, come in un dopoguerra.

Ma l’urto di una crisi può avere l’esito opposto: ciascuno rannicchiato nei suoi confini, i rapporti internazionali più conflittuali, le politiche protezionistiche: una babele litigiosa. L’esito divisivo è più probabile perché le classi dirigenti nazionali non hanno incentivi per azioni collettive che superino i loro interessi isolati e di breve periodo.

Fatto sta che è bastato l’illusorio cenno di ripresa del 2009 per quietare la paura e lo stimolo a cooperare. Il G20 si è riaddormentato. Si è interrotta la disponibilità a rivedere le regole della finanza, che pure aveva spaventato un mondo che, dietro al velo del credito e delle monete, aveva nascosto problemi reali mal compresi. Nell’Ue sono nate nuove fratture. I rapporti transatlantici si sono fatti più difficili, anche per la concorrenza non dichiarata fra il dominio del dollaro e il giovane euro.

La politica monetaria statunitense ha continuato a inondare l’economia di liquidità senza riguardo per la stabilità monetaria mondiale. I deficit pubblico ed estero degli Usa non sono stati sottoposti a un’adeguata discussione sovranazionale. Il colossale debito pubblico giapponese ha continuato a crescere, trascurato da un’attenzione internazionale incapace di prevenire l’acutizzarsi dei problemi. Sui problemi dell’impetuoso sviluppo cinese si è fatta polemica internazionale anziché riflessioni cooperative.

La Cina non ha avuto adeguato riconoscimento delle sue nuove dimensioni economiche in istituzioni chiave come il Fmi. Il Fmi non è stato in grado di far cessare il timore di quella che si è preso con leggerezza a chiamare “guerra fra monete”. Un Sudamerica più convinto di se stesso ha mostrato una crescita promettente ma si è intrappolato con protezioni doganali, litigi commerciali e monetari. L’inadeguatezza istituzionale e politica del Wto è divenuta più evidente. I nuovi fermenti dello sviluppo africano non hanno trovato un consesso mondiale unito nel comprenderli e assisterli in modo concorde e coerente.

Le crisi industriali e bancarie sono state tamponate con sussidi e salvataggi nazionali, distorcendo le competitività e disincentivando il rinnovamento delle produzioni e l’integrazione dei mercati. Produttori e consumatori hanno continuato a mostrar fame di commercio internazionale e attività transnazionali. Ma senza il coordinamento delle norme e delle politiche, anche le imprese multinazionali si sono andate spezzando in organizzazioni segmentate dai confini dei Paesi dove operano e cercano il favore dei governanti, rinunciando a economie di scala e al ruolo di promotrici di relazioni economiche globali più aperte. I giovani hanno continuato a cercare un mondo integrato per valorizzare il loro capitale umano; sono aumentati, ad esempio, gli americani che studiano in Cina e viceversa: il contrario di una babele. Ma senza concertazione politica che tracci una strada comune per lo sviluppo stabile dell’economia mondiale, rischia di prevalere la babele deludendo le loro aspirazioni.

È urgente ribaltare l’esito della crisi nella direzione virtuosa, cooperativa. Se alla politica mancano gli incentivi per farlo, vanno creati. Servono riflessioni sui modelli di sviluppo e meccanismi istituzionali internazionali che stimolino azioni collettive per produrre beni pubblici globali. Qualità dell’ambiente, sostenibilità della distribuzione dei redditi e delle ricchezze, stabilità della finanza e delle monete, lungimiranza delle politiche fiscali e industriali, consapevolezza demografica, ordine migratorio, efficienza delle comunicazioni materia-li e informatiche, sostenibilità dell’uso delle fonti energetiche, contenimento del crimine organizzato, e tanti altri: i beni pubblici globali divengono più numerosi e importanti con l’aumentare delle interdipendenze fra i popoli, le imprese, i Paesi. L’azione collettiva per ottenerli deve fermare la babele e allungare gli orizzonti delle politi-che economiche, liberandole dalla schiavitù di effimeri interessi nazionali

Franco Bruni è vice-presidente dell’Ispi e ordinario di Teoria e Politica monetaria internazionale all’Università Bocconi di Milano.

Cercasi strategia economica mondiale

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