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“Tutto per nulla dunque?” Parafrasando Montale, con lo sguardo sulle macerie di una guerra e mezzo (Siria e Israele-Palestina), il tour di Hillary Clinton in Medio Oriente sembra riportare la regione alla tradizione più pura della presenza americana nel Mediterraneo orientale. Nella serie di incontri di questi giorni il Segretario di Stato, secondo Business insider, avrebbe sancito la rinascita di una solida collaborazione tra Usa, Egitto, Israele e Turchia. Un asse per nulla nuovo, almeno in apparenza. Eppure la forma apparentemente statica (tanto da far pensare ad una ciclicità senza sviluppi) racchiude dinamiche diverse rispetto al passato, quando queste potenze (genericamente, e molto tatticamente) filoamericane erano bastioni della conservazione degli equilibri, in particolare la Turchia immobilizzata dallo scomodo gigante russo con le zampe ben piantate alle radici del Caucaso, e l’Egitto costretto a giocare di rimessa sulla carta fondamentalista tenuta sospesa sul Mar Rosso dai delicati equilibri energetici tra Ryhad e Washington.

Il risultato dei fattori non cambia Ora tutto, davvero tutto, è cambiato. Turchia ed Egitto sono potenze revisioniste interessate a sostenere il mutamento di equilibrio nell’area. L’Egitto ha il vantaggio politico di aver sperimentato sulla propria pelle il cambiamento attraverso un processo rivoluzionario interno, di cui porta i segni e le cicatrici con orgoglio. La Turchia ha il vantaggio militare di un esercito tra i meglio addestrati della Nato, che è già presente nell’area da anni se si considerano le operazioni condotte contro il Pkk tra le montagne curde, dal 2007 con forte sostegno americano. Così, l’Egitto ha il primato degli strumenti ideologici, la Turchia di quelli militari.

Insieme possono convergere in un disegno di risistemazione del Medio Oriente, da cui anche Israele, rompendo l’inerzia a due anni dalle rivoluzioni arabe, ha deciso di partecipare con l’intervento a Gaza, che secondo analisti israeliani è stato un successo nella misura in cui ha spezzato una linea di penetrazione iraniana nella Striscia, sostituendovi o rafforzandovi l’influenza egiziana. L’unica costante tra ieri ed oggi è la forte leva saudita sulla politica estera americana, che si esprimeva un tempo nella dipendenza petrolifera e ora nella dipendenza dall’alea di gruppi fondamentalisti wahabiti che infiammano la regione.

Calcoli turchi, mosse israeliane L’azione di Hillary Clinton può essere letta attraverso il filtro del rapporto con i think tank e in particolare con quel Csis cui ha rivolto a settembre il fondamentale discorso sul Maghreb tradotto e  pubblicato da Formiche (numero di ottobre). Il centro studi di Washington esprime, anche negli ultimi mesi, una valutazione positiva della collaborazione turco-americana nella regione, invitando a prendere in maggiore considerazione gli interessi dello Stato anatolico. Una tale apertura di credito può servire alla strategia Usa secondo gli scopi della più nobile tradizione kissingeriana: bilancia di potenza e trattativa da posizioni di forza. Una bilancia cioè sfavorevole all’Iran in Siria determinata dall’escalation militare turca in corso a nord dovrebbe bastare a costringere Teheran a negoziare su altri capitoli, per esempio il suo assetto energetico che attualmente favorisce troppo Russia e Cina.

La Turchia è la potenza che più direttamente può interpretare questa duplice esigenza Usa. Tuttavia non basta la teoria. Ci vorrà anche la sanguinosa prassi della guerra per testare la fedeltà degli “islamisti moderati” di Ankara agli intenti della signora di Foggy Bottom.

Intanto Israele ha già dimostrato che la bilancia regionale è molto più sfuggente di quanto appaia, e che lo Stato ebraico vi rientra a pieno titolo.

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