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Paura. Vulnerabiltà. Minacce. Il linguaggio dello spavento, il linguaggio securitario che aleggia in America non sembra questa volta suscitare la stessa presa di distanza critica e politica europea che vedemmo all’opera durante la presidenza Bush. Allora la minaccia era declinata in termini fisici, prima ancora che virtuali, e fu preliminare a sviluppi incresciosi dal punto di vista non solo del diritto internazionale ma anche del prestigio culturale occidentale: le rendition, le torture e tutti gli altri noti eccessi dell’antiterrorismo globale.

Oggi è il contrario: c’è il primato della virtualità, come emerge dal programma CyberCity del Pentagono: una comunità di 15mila utenti in cui si addestrano i combattenti virtuali a difendere le reti da cui dipendono i servizi essenziali e che sarebbero entrate nel mirino di Cina ed Iran, secondo un ormai famoso intervento di Leon Panetta, in cui veniva paventata una “11 settembre cibernetica”. Di fronte al linguaggio dello spavento che zittisce tutti, non resta che collegare l’evoluzione del panorama cyber, degli attori e delle dinamiche dello spazio virtuale, alla dinamica geopolitica che è ancora fatta di attori statali politici in competizione militare per l’accesso e il controllo delle risorse distribuite sul territorio. Così, la CyberCity può apparire una risposta di ultima istanza alle potenze “assertive”, che con grande scandalo di Washington non accettano di svolgere un ruolo di secondo piano nello spazio informativo. Sia Cina che Iran, infatti, puntano alla penetrazione negli spazi virtuali non per mero desiderio distruttivo – secondo la tesi puerile che fanno passare alcune analisi anche di casa nostra – ma per poter veicolare la propria influenza culturale e ideologica, radicata in tradizioni millenarie che, intrecciandosi, possono costituire un elemento di sistemazione alternativa di spazi strategici fondamentali dell’insieme eurasiatico (Medio Oriente, Asia orientale). Dal punto di vista degli analisti Usa, legittimamente ancorati ai loro interessi, questo utilizzo del mezzo cibernetico da parte degli sfidanti equivale ad un “avvelenamento dei pozzi”. Messa in questi termini, la questione di CyberCity è quella della “prosecuzione della guerra con altri mezzi”, per parafrasare von Clausewitz, per promuovere su scala globale gli interessi nazionali americani. E dunque, per mettere mano a capacità non solo di difesa ma anche di attacco (o difesa preventiva, che è la stessa cosa), capaci di distruggere le infrastrutture critiche di un’architettura mediatica-informativa-elettronica alternativa a quella costruita dagli Stati Uniti, pensata cioè secondo un diverso concetto strategico.

Ancora manca una riflessione su cosa significhi questa virtualizzazione del conflitto per gli equilibri globali e regionali, specie in Medio Oriente. Bisognerà cominciare, per non farsi travolgere dagli eventi e dalle illusioni ottiche del tecnicismo, che vorrebbero trasformare la geopolitica in un sistema di equazioni semplici, nella scienza lineare che non è.

Cos'è (e come funziona) la CyberCity del Pentagono

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