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Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Riccardo Ruggeri, saggista, editore ed ex top manager del gruppo Fiat, apparso il  22/01/2013 sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

I giornali hanno raccontato, a dieci anni dalla morte, Gianni Agnelli e le varie personalità che albergavano in lui, l’hanno fatto le migliori penne del Paese: ne è emerso un mix fra un dio greco, un principe rinascimentale, un moderno eroe tecnologico, con l’elicottero come “tappeto volante” (suo copyright).

Invece, il Gianni Agnelli che racconto io era quello dietro la vecchia scrivania in legno all’ottavo piano di Corso Marconi, faceva il Presidente della Fiat, lo stesso che ogni due settimane, il lunedì alle 15 presiedeva con eleganza il Comitato Direttivo, presenti Cesare Romiti, Paolo Mattioli, Paolo Cantarella, Giancarlo Boschetti ed io: in quelle tre ore venivano prese le decisioni strategiche della Holding. Con affetto, lo ricordo attraverso un minuto episodio personale.

Ero da 27 giorni a Tripoli, per negoziare un’importante fornitura di veicoli militari e di supporto logistico, in uno dei momenti più tesi dello scontro politico-militare fra gli Stati Uniti e la Libia, gli americani non erano entusiasti della nostra iniziativa. Finalmente firmammo il contratto: gerarchi in alta uniforme, cortile interno della caserma Bab el Aziziya, tenda di Gheddafi (in realtà un bunker sotterraneo). Rientrai con l’aereo Fiat (tutti i voli civili erano stati sospesi), appena atterrato mi chiamò Romiti: affettuosamente si complimentava (era un contratto di diverse centinaia di milioni di dollari), preannunciandomi per il mattino dopo alle 8 un incontro con l’Avvocato. Appena seduto, mi chiese cosa pensavo della recente decisione di Gheddafi di espellere, in 48 ore, 5.000 funzionari marocchini, sostituendoli con altrettanti asiatici. Ascoltò la mia narrazione attento, poi disse: “Caro Ruggeri grazie per queste informazioni per me preziose” e mi congedò.

A me la leggerezza dell’Avvocato piacque. Ne ebbi conferma negli anni successivi, quando imparai a conoscerlo meglio. Cosa avrebbe potuto dirmi, al di là di farmi banali congratulazioni? L’operatività non era il suo mondo, nella fattispecie la complessità delle negoziazioni con le burocrazie politico-militari arabe, i loro riti, le loro miserie, erano fuori dai suoi interessi. Via via che il lavoro mi portava a vivere, prima a Roma, poi a New York, poi a Londra, mi fu assegnato l’autista Fiat locale, ne disponevo quando non c’era l’Avvocato. Anche dai loro racconti, aneddoti, battute, veniva fuori il ritratto di un uomo brillante, curioso, gaudente, con un suo senso del dovere, di certo non convenzionale. Era il ruolo di numero uno di un’azienda metalmeccanica che non gli era congeniale, per questo mai condivisi i giudizi su di lui.

Due erano allora le correnti di pensiero su Gianni Agnelli, che mi paiono rimaste identiche anche oggi. Una, salottiera, sintetizzata dal titolo scalfariano “Avvocato panna montata”, che lo ferì: giudizio banale, ingeneroso. L’altra, agiografica, che lo descriveva come il più grande imprenditore italiano del Ventesimo secolo. Giudizio altrettanto banale che lui stesso, cinico uomo di mondo, avrebbe rifiutato con ironia.

Neppure fu l’uomo moderno, kennediano, visionario descritto dagli stranieri, forse in contrapposizione all’italiano medio. Più semplicemente fu un uomo normale, perdutamente e curiosamente innamorato della sua immagine, più che della sua persona. Con gli inglesi parlava con l’accento della Bbc, usava quello della Cnn con gli americani: ricordo una sua conferenza a New York, rispondeva alle domande con lo stesso accento, inarrivabile! Infantile nel voler stupire (orologio sopra il polsino, cravatta sopra il golf), nel divertirsi a prendere in giro tutti (mai i suoi manager), nell’incapacità di governare una costante irrequietezza. In realtà, era un uomo d’altri tempi, certo era perfettamente a suo agio nel jet-set cosmopolita, ma nel profondo era rimasto un ufficiale di cavalleria di stanza a Pinerolo, il signore di un marchesato piemontese di montagna (penso a Saluzzo).

Molti si sono posti la domanda “Gianni Agnelli che uomo è stato”? Per me, ripeto, un uomo normale che, forse per gioco, forse per curiosità intellettuale, ha permesso al suo avatar di interpretare il ruolo di testimone del superfluo: la filosofia di vita che noi occidentali pratichiamo da oltre cinquant’anni. È dagli anni ’60 che abbiamo costruito uno sterminato catalogo di prodotti e di comportamenti sociali chiaramente superflui, alcuni l’hanno chiamato “finto rinascimento”. L’avatar di Gianni Agnelli ci ha accompagnato in questo percorso, con la sua innata classe e la sua piacevole leggerezza: è stato il primo e l’ultimo di tale “rinascimento”. Aveva la classica mescolanza di arroganza e di narcisismo, tipica dei membri ultra selezionati dell’élite delle élite; però sono felice di aver conosciuto l’adolescente flamboyant che albergava in lui, anche in età avanzata. Il suo profilo da moneta imperiale romana è stata la filigrana di un’epoca ormai morta.

Due sue particolarità mi accomunavano a lui. Era un “Fiat di terza generazione”, come me, e amava Torino e la Fiat svisceratamente, come me. Sapeva che non ci sarebbe stata la “quarta generazione”, e la “quinta” avrebbe avuto un altro ruolo. “Se non capisci Torino e la Fiat, non capisci l’Italia”, diceva. Una grande verità. Amava il “vento”, immagino perché non poteva possederlo, mentre io lo amo perché mi protegge, mi libera dalle foglie secche, abbatte gli alberi morti.

Vi racconto il Gianni Agnelli che ho conosciuto

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