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Sembrava fatto apposta per un tweet. Il commento di Lloyd Blankfein, amministratore delegato di Goldman Sachs, alla Clinton global initiative di qualche giorno fa era di quelli imperdibili e icastici, ideali per circolare in rete. Wall Street, ha detto in quell’occasione Blankfein, è “delusa” dall’amministrazione Obama. Più che una sconfessione, un affondo per condizionare l’esito della partita elettorale e della formazione di quello che ormai appare come un probabile Obama II. Tanto più che il contesto, decisamente “clintoniano” ci ricorda come la vera coalizione alternativa a quella obamiana passa per le stesse file democratiche.
Lo spunto, la leva per influenzare il processo politico in corso non è più una generica situazione di crisi economica, ma il più specifico nodo del budget. La prima in effetti rappresentava il leitmotiv della campagna estiva dei repubblicani e, a quanto pare, non ha dato i risultati sperati. Ben Smith di BuzzFeed nota che la percezione dell’andamento economico si è fortemente polarizzata: in pratica, gli elettori democratici “vedono rosa” laddove i repubblicani “vedono il baratro”.
 
È il segnale di un fallimento strategico della propaganda di Romney, tanto è vero che la nuova linea è quella di collegare la debole ripresa al peso del deficit, e attraverso questo alla critica dello standing internazionale degli Stati Uniti. Insomma, non riuscendo più a cogliere il risentimento per la recessione e canalizzarlo nelle forme retoriche tipiche della “classe media”, Romney sarà costretto a operare su un terreno forse più congeniale alle corde dell’eccezionalismo americano promosso dai repubblicani. E tuttavia, si tratta di un terreno scivoloso per un uomo proveniente dal business, scarso conoscitore delle vicende internazionali; per di più, non ci saranno numeri a sostegno delle posizioni espresse, ma solo sensazioni. Secondo Jeff Lightfoot dell’Atlantic Council, l’opposizione di Romney alla politica estera di Obama è più di forma che di sostanza. E sul cruciale test del nucleare iraniano, le parole del presidente in carica (che non ha mai escluso alcuna opzione militare) sono state non meno dure di quelle pronunciate dallo sfidante. Non è un caso che Romney abbia detto in modo evocativo e impreciso al Wall Street Journal che gli Usa “sembrano essere alla mercé degli eventi e di non saperli plasmare”. Ma si può determinare una sensazione al punto di farne la chiave della scelta di un presidente?
 
Il punto è che la politica estera dipende dall’economia, cioè dal budget federale. Ma anche su questo fronte Romney non sembra rappresentare un’idea innovativa di America, adatta al mondo multipolare e alle forme post-statali di sovranità ed influenza. L’appunto viene da Roger Cohen dell’International Herald Tribune. Perfino su un giornale non certo liberal o pro-Obama non si manca di stigmatizzare l’insufficienza della politica estera repubblicana. Ne è un esempio l’opposizione al nuovo stanziamento da 450 milioni di dollari voluto da Obama in favore dell’Egitto. Quella di Romney, dice Cohen, è una politica estera “à la Putin”, nostalgica e nemica del soft power alfiere dei cambiamenti favorevoli agli interessi globali Usa.

Perché finora Romney non ha sedotto gli americani

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