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Una vera rarità, ma anche negli Stati Uniti si polemizza durante le crisi internazionali. Il tradizionale adagio bipartisan secondo cui “politics stops at the water’s edge” (la lotta politica si ferma appena esce dal territorio nazionale) è stato smentito all’indomani della morte dell’ambasciatore americano in Libia Christopher Stevens, il primo diplomatico americano ucciso all’estero da più di trent’anni a questa parte. Mitt Romney, dopo aver ricordato le quattro vittime (oltre a Stevens, altri tre membri del personale diplomatico), ha subito definito “disgaceful and apologetic” la reazione dell’amministrazione Obama.
 
Potremmo tradurre “disgraceful” come “priva di onore”, se consideriamo il retaggio fondamentalista cristiano della Grazia come crisma dell’onore e della rispettabilità morale e sociale degli individui. Per quanto riguarda l’altro aggettivo, “apologetic”, si tratta di un rafforzativo: è lo stare sulla difensiva di chi non è sicuro della propria condizione di grazia e quindi della propria missione sul pianeta (il riferimento polemico di Romney in particolare è al comunicato di difesa della religione musulmana emesso dall’ambasciata in Egitto, anch’essa sotto attacco).
 
Ritradotto in termini di realismo politico, si tratta della gestione complessiva della politica internazionale, non sui singoli fronti ma come “postura” generale degli Stati Uniti. Per Romney, attaccare su questo versante è quasi naturale e inevitabile – vista sia la buona immagine di Obama (sintetizzata dalla costruzione e dal racconto mediatico dell’uccisione di Osama Bin Laden nel maggio 2011) sia l’assenza di forte esperienza internazionale – quella che non mancava certo, tanto per dirne una, a Bush senior nelle elezioni del 1988 e del 1992.
 
Il contrattacco repubblicano in politica estera non poteva dunque che partire da una sconfitta simbolica, come simbolica era stata la vittoria sul capo di Al Qaeda. Si potrebbe stabilire perfino un parallelo con la crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana in Iran, la cui pessima gestione fu il principale fardello mediatico su Jimmy Carter. Ma è troppo presto per arrivare a queste conclusioni. Primo, Obama ha detto che risponderà con determinazione per fare giustizia, riecheggiato dal potente leader repubblicano del Kentucky senatore McConnell che ha sottolineato l’unità della nazione nel difendere con “risoluzione” i propri interessi strategici.
 
Secondo, Romney è debole ma non è disperato e la sua visione semplice e moralistica della politica estera, visione radicata nei Grandi Laghi e nel Midwest, non può essere considerata irrealistica o non spendibile sul piano internazionale: il viaggio estivo a Londra, Varsavia e Gerusalemme ha disegnato anzi una geografia complementare a quella asiatica e pacifica prediletta da settori influenti dell’attuale amministrazione. Terzo, Egitto e Libia sono alle porte meridionali dell’Europa e da sempre sfuggenti alle sfera di influenza delle principali potenze (più della Siria, pressata tra Turchia, Iran e la longa manus russa).
 
È dunque interesse generale statunitense quello di posizionarsi in quest’area. Per farlo lo shock di immagine può servire, ma molto più importanti sono i riposizionamenti dei vari think tank legati alla sfera geopolitica e militare. Christopher Chivvis della Rand Corp (think tank espressione di interessi strategico-militari) critica la scelta di lasciare senza presidi militari il Paese dopo la caduta di Gheddafi e dubita che il governo libico possa rispondere efficacemente. Se Obama non agirà con successo e presto (come sembra voler fare in queste ore), il pungolo repubblicano potrà trasformarsi in pungiglione a novembre, e trafiggerlo sulla via della rielezione.
 
 
 

Così Romney sfrutterà gli attentati

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