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L’austerità in Europa si confronta con una crescente opposizione sociale, ma almeno ha il merito della semplicità. Il sempre più intenso dibattito sul consolidamento fiscale, infatti, evidenzia l’assenza di un accordo su che cosa possa far ripartire l’economia, al di là dei pacchetti di stimolo. Una delle idee sul tavolo è quella che la tecnologia ambientale possa innescare un circolo virtuoso di innovazione ed occupazione. Per alcuni, crescita verde vuol dire campagne con distese di pale eoliche e tetti ricoperti di pannelli solari. Ma è una visione restrittiva. Crescita verde è anche quella messa in atto da Airbus quando ha cambiato processo produttivo per le finiture metalliche dei portelloni, passando dalle presse a iniezione alle presse a 3D, con il risultato di dimezzare il peso dei componenti, ottenere enormi risparmi di materiale e di consumi di carburante.
 
Al momento, è ancora relativamente più semplice individuare alcuni esempi di eccellenza piuttosto che evidenziare il modo in cui essi hanno rilanciato l’economia nel suo complesso. Inoltre vi sono molte diverse narrative sull’economia verde, e molte altre probabilmente emergeranno in futuro.
Questo mese migliaia di attivisti, legislatori e imprenditori si ritroveranno a Rio de Janeiro per la terza megaconferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, il cosiddetto Rio+20, al cui centro ci sarà appunto l’economia verde. La conferenza farà emergere nuove argomentazioni su lavori verdi, crescita, costi, valori etici, scelte dei consumatori, sarà insomma un trionfo del “verde” in tutte le salse. Come co-autore di Un nuovo percorso di crescita per l’Europa, report commissionato dal governo tedesco, mi sento anche corresponsabile per questa cacofonia di prospettive sulla crescita verde.
 
La Fondazione europea sul clima ha già pubblicato la sua “Roadmap 2050. Una guida per una prospera Europa low-carbon”. Da allora, il Programma ambientale delle Nazioni Unite ha pubblicato il suo “Green economy report”; McKinsey ha scritto uno studio intitolato Rivoluzione delle risorse, e l’International trade unions council ha pubblicato “Crescita verde e occupazione di qualità” – e questi sono solo alcuni degli esempi che potrei citare. Si tratta di approcci differenti, con raccomandazioni differenti, per cui i legislatori non riescono a vedere la foresta tra gli alberi. E, ancora più alla radice, vi è la difficoltà con cui la teoria economica spiega i meccanismi della crescita e dell’innovazione. I modelli macroeconomici da cui dipendono i legislatori sono strumenti ottimi per periodi di evoluzione graduale e incrementale, ma la crescita verde non ha nulla di graduale.
 
L’obiettivo dell’Unione europea di tagliare dell’80% le emissioni di gas serra entro il 2050 implica una revisione completa, in pochi decenni, dell’infrastruttura Ue. L’incapacità degli economisti di offrire un modello per questo cambiamento così rapido e radicale non dovrebbe suonare come una condanna per la disciplina economica; è solo un riflesso dello stato delle nostre attuali conoscenze, e del fatto che l’economia è una materia estremamente complessa. Semplicemente, ancora non abbiamo abbastanza elementi per capire come tutte le sue variabili interagiscano in tempi di profondo cambiamento, per esempio durante una crisi finanziaria o un boom economico.
 
Eppure gli studi sopra menzionati sembrano tutti offrire valide spiegazioni in questo senso. Ma che cosa ci dicono, realmente? In pratica, ognuno di essi si concentra solo su uno o due aspetti del complesso economico, descrivendone le reciproche interazioni. “Crescita verde e occupazione di qualità” guarda alla relazione tra investimenti e posti di lavoro. “Un nuovo percorso di crescita per l’Europa” esplora l’impatto delle aspettative e delle economie di apprendimento. La Roadmap 2050 si concentra sulla trasformazione ecologica del sistema energetico. Da questi elementi, gli economisti partono, con un po’ di fideismo, per trarre conclusioni sul sistema economico nel suo complesso. Tutti questi studi, in pratica, hanno un alto valore nel momento in cui fanno luce su singole variabili, ma le conclusioni generali che ne traggono sono invariabilmente sul complesso economico, articolate in termini di Pil e posti di lavoro. Essi riescono a descrivere una parte, non l’insieme, dell’economia verde – e non perché siano inadeguati, ma perché, semplicemente, ciò andrebbe al di là delle loro possibilità.
 
Detto ciò, il fatto che non si possano offrire conclusioni esaustive sul funzionamento di un’economia verde non implica che dobbiamo abbandonare l’idea. Sappiamo dalla storia che ondate di innovazioni (dall’energia a vapore alla rivoluzione informatica e comunicativa) hanno portato a straordinarie accelerazioni dello sviluppo. Non abbiamo prove che l’innovazione ecologica avrà un simile effetto, ma gli studi su singoli aspetti del fenomeno lasciano intendere che ciò sia molto probabile. Come esseri umani, siamo gli unici in grado di prendere decisioni sulla base di informazioni incomplete – è ciò che facciamo sempre. Quando scegliamo una carriera o prendiamo moglie, o quando un uomo politico sceglie una linea tra tante possibili, si tratta sempre di prendere decisioni dalle profonde conseguenze sulla base di informazioni incomplete.
 
La pletora di report sulla crescita verde dimostra che qui risiede una buona prospettiva di ripresa da quella che appare come una crisi economica di portata storica. Spetta ora a noi realizzarne il potenziale. La crescita verde offre un’alternativa realistica all’approccio oscillante dell’austerità. Il legislatore dovrebbe includere la crescita verde nella narrativa “post-austerità” che si sta affermando in un sempre maggior numero di Stati membri della Ue.
 
 
© Project Syndicate 2012. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia

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