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Mai come in questa fase riformatrice ci pare opportuna una riflessione sul tema della concorrenza. Termine, quest’ultimo, frequentemente abusato, talvolta assolutizzato come fine di ogni processo economico e non invece come mezzo, un processo regolato a beneficio di imprese e di consumatori.
Il Paese oggi appare in una fase di transizione, bisognoso di una strategia industriale chiara e univoca e di medio-lungo termine, che incentivi crescita e sviluppo. Ma quali sono le patologie del nostro Paese che non hanno permesso di garantire un mercato realmente e totalmente aperto, davvero concorrenziale, che garantisse una vera e propria workable competition? La domanda ci rimanda ad una considerazione di fondo che come Centro studi Tocqueville-Acton abbiamo particolarmente a cuore, ovvero la prospettiva antropologica: il processo concorrenziale è uno degli innumerevoli mezzi conciliabili con la morale cristiana perché razionale, e dunque presupposto fondamentale del capitalismo per il raggiungimento del bene comune, ovvero il fine.
 
Sul piano antropologico ed economico, l’impatto della crisi è stato inevitabile. Le così dette tre dimensioni dell’uomo economico (produttore, compratore, investitore) sono entrate in conflitto poiché il lavoratore italiano lavora in un’impresa di cui non compra i prodotti perché non li trova competitivi, e nella quale non investe perché essa non offre sufficiente rendimento. Se poi la stessa persona compra prodotti di un’impresa concorrente a quella per cui lavora, investendovi magari anche il proprio capitale, la sua azienda è destinata presto a fallire e lui a restare senza lavoro e di conseguenza a perdere anche le dimensioni di consumatore e di investitore.
 
Il disallineamento delle tre dimensioni e gli interrogativi sottostanti richiedono pertanto dovuti approfondimenti. Ne abbiamo discusso il 22 marzo scorso in occasione di un convegno dal titolo “Lo stato della concorrenza in Italia, analisi e prospettive”, organizzato dal Centro Studi Tocqueville-Acton e dall’Osservatorio Antitrust dell’Università di Trento.
L’occasione del convegno ci ha poi dato la possibilità di riprendere il tema accantonato del disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 41 della Costituzione.
 
L’articolo 41 incorpora all’interno della Costituzione il principio di libera iniziativa economica pur corredato da marcati limiti, e poco più di un anno fa il governo propose una revisione finalizzata ad integrare il testo vigente con la clausola “ciò che non è vietato è permesso”, quasi a indicare il fatto che il freno all’economia italiana fosse rappresentato (anche) da un principio costituzionale incompatibile o addirittura superato.
La distonia tra l’art. 41 e i principi di libero mercato fondanti l’Ue è certamente evidente: pensiamo alle quattro libertà fondamentali espresse nel Trattato, ai vecchi articoli 81, 82 e 86 del Trattato ma anche 98 (ora 120), e pensiamo all’innumerevole giurisprudenza comunitaria che ha applicato ed interpretato questi principi secondo una visione ordo-liberale dell’economia sociale di mercato. Ecco che i principi della concorrenza fanno ingresso in Italia attraverso una via europea, addirittura con una legge ordinaria, “nonostante” l’art. 41 della Costituzione formulato secondo un’impostazione di compromesso culturale tra la corrente di Dossetti e quella di De Gasperi, tutt’altro che connotata dai principi di economia sociale di mercato.
 
Tuttavia notiamo che l’art. 41, benché specialmente al comma 3 rifletta una visione dirigistica dell’economia, non ha ostacolato le riforme in Italia nemmeno nel passaggio cruciale dallo Stato gestore allo Stato regolatore. In fondo, come qualcuno ha argutamente sottolineato, l’art. 41 è tanto poco “sovietico” da aver passato indenne il ciclone dell’integrazione europea, e nulla ha a che vedere con i lacci della burocrazia che invece dipendono dalle incapacità del legislatore di semplificarla seriamente.
In nome dell’art. 41 sono state attuate leggi profondamente diverse tra di loro: così come è stata approvata una legge di “programmazione economica” negli anni ‘60, notiamo che 30 anni dopo è stata istituita l’autorità Antitrust (la cui legge 287/90 riflette nella sostanza i principi della libera concorrenza ed una visione di economia sociale di mercato!).
 
Lo sbandieramento della riforma costituzionale ha dunque ragion d’essere sulla premessa che l’articolo in esame sia considerato una norma “manifesto”, e non deve in alcun modo offuscare la necessità di riforme reali per la crescita e lo sviluppo del Paese. Del resto, oggi il ricorso ai principi comunitari da parte dei giudici già permette l’enforcement diretto delle norme sulla libera concorrenza previste nel Trattato Ue. Sul tema ci siamo espressi come Centro Studi, cercando di offrire al dibattito una visione ridimensionata della portata dell’art. 41, ma anche proponendo una modifica del solo terzo comma, che è la seguente: «La legge garantisce la tutela dei consumatori e la fornitura dei servizi di interesse generale in regime di libera concorrenza, sanzionando chiunque operi per impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza. È incompatibile con il mercato in regime di libera concorrenza lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato nazionale o su una parte sostanziale di questo».
Sia chiaro però l’assunto di partenza, vale a dire che non è l’art. 41 la medicina per uscire dalla crisi, ma questo rappresenta semplicemente una sorta di avallo normativo più coerente e lineare all’auspicata stagione di riforme sostanziali che questo Paese richiede.

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