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Il 25 aprile 2010 la Banca mondiale, la Fao, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) e il segretariato Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) hanno presentato sette “Principi per l’investimento responsabile in agricoltura”. Questi principi mirano a garantire che gli investimenti terrieri su larga scala determinino situazioni win-win, ovvero a somma positiva, che portino beneficio sia agli investitori sia alle comunità direttamente coinvolte. Si tratta di intenzioni positive, che contengono numerose e utili raccomandazioni. Ma sono gravemente inadeguate al compito prefissato, e a loro modo illustrano la difficoltà di raggiungere il consenso globale su norme cogenti a livello globale.
 
È da molti anni ormai che investitori privati e Stati acquistano e affittano milioni di ettari di terreno agricolo in tutto il mondo, per proteggere le proprie linee di approvvigionamento di cibo, materie prime e biocarburanti o per ottenere sussidi per la cattura del carbonio effettuata nelle piantagioni. Anche gli investitori occidentali, incluse le banche di Wall Street e gli hedge fund, hanno cominciato a vedere l’investimento diretto nella terra come un porto sicuro nei mari tempestosi della finanza odierna. La portata del fenomeno è ormai enorme. Dal 2006, dai 15 ai 20 milioni di ettari di terreno agricolo (l’equivalente della superficie totale arabile della Francia) sono stati oggetto di negoziazioni da parte degli investitori esteri.
 
Il set di principi proposti per disciplinare il fenomeno sono totalmente insufficienti. Restano puramente volontari, mentre sarebbe necessario insistere con i governi sul pieno rispetto dei diritti umani, incluso il diritto all’alimentazione, e il diritto di ognuno di disporre liberamente dei propri beni e risorse, e di non essere privati dei mezzi di sussistenza. Ignorando i diritti umani, questi principi ignorano la dimensione essenziale della responsabilità politica. C’è inoltre una chiara tensione tra la cessione di terra a investitori per la creazione di grandi piantagioni, e l’obiettivo di redistribuire la terra e assicurare un accesso più equo alla stessa – un impegno che i governi hanno spesso ribadito, e nell’occasione più recente alla Conferenza del 2006 sulla riforma agraria e lo sviluppo rurale. Il problema di fondo va oltre la semplice formulazione dei principi. La promozione di investimenti agrari su larga scala si basa sull’idea che per combattere la fame è necessario aumentare la produzione alimentare, e sulla convinzione di molti governanti che la carenza di offerta sia dovuta alla mancanza di investimenti in agricoltura; per cui l’aumento degli investimenti nel suolo agricolo è uno sviluppo benvenuto, e qualsiasi regolamentazione del settore deve stimolare più investimenti, non scoraggiarli.
 
Sia la diagnosi sia la cura sono sbagliate. La fame e la malnutrizione non sono in primo luogo la conseguenza di una carenza di offerta alimentare; sono la conseguenza della povertà e della disuguaglianza, particolarmente nelle zone rurali, dove ancora risiede il 75% dei poveri del pianeta. In passato, lo sviluppo agricolo ha dato la priorità a forme di intervento su ampia scala e con ingenti capitali, trascurando i piccoli proprietari e il loro rapporto con le comunità locali. E i governi non sono riusciti a proteggere i lavoratori agricoli dallo sfruttamento in un ambiente sempre più competitivo. Non dovrebbe destare sorpresa, quindi, che piccoli proprietari e lavoratori della terra insieme rappresentino circa il 70% di coloro che soffrono la fame oggi. L’accelerazione verso forme di agricoltura di scala e molto meccanizzate non risolverà il problema: lo renderà di più ardua soluzione. Le aziende agricole grandi e meccanizzate sono molto competitive, nel senso che possono produrre per il mercato ad un costo minore. Ma possono anche generare costi sociali che non vengono contabilizzati nel prezzo di vendita sul mercato dei loro prodotti. I piccoli produttori, invece, hanno costi più alti.
 
Spesso sono molto produttivi per ettaro, perché massimizzano l’uso del suolo e perché devono massimizzarne l’utilizzo complementare da parte di piante e animali. Ma la forma di agricoltura che praticano, che è meno sbilanciata sugli input esterni e sulla meccanizzazione, è ad alta intensità di lavoro: se competono sugli stessi mercati delle grandi aziende, perdono. Tuttavia, i servizi che rendono sono di altissimo valore, preservando la diversità agricola e biologica, la resilienza delle comunità agli shock di prezzo o agli eventi atmosferici, e la conservazione ambientale. L’arrivo di investimenti nel settore muterà le relazioni tra questi due mondi agricoli, esacerbando una competizione già di per sé molto iniqua. E potrebbe danneggiare gravemente il capitale sociale nelle aree rurali.
 
Certo, gli investimenti agricoli dovrebbero svilupparsi in modo responsabile. Molti hanno letto la vicenda della crisi globale dei prezzi alimentari come l’apertura di nuove opportunità di investimento; ma le opportunità non devono essere scambiate per soluzioni. Per rilanciare l’agricoltura nei Paesi in via di sviluppo ci vogliono, secondo alcune stime, 30 miliardi di dollari l’anno, pari allo 0,05% del Pil mondiale.
 
Quanto verrà destinato all’agricoltura è meno importante rispetto a quale tipo di agricoltura decideremo di sostenere: finanziando l’ulteriore espansione delle monocolture su larga scala, nelle mani dei maggiori operatori economici, rischiamo al tempo stesso di aumentare il gap con l’agricoltura su piccola scala, di tipo familiare, e di dare ancora forza ad un modello industrializzato che è già responsabile oggi di un terzo delle emissioni di gas serra di origine umana. È una sventura che, invece di innalzarci al livello della sfida – quella di un’agricoltura più sostenibile in senso sociale ed ambientale – agiamo come se fosse possibile accelerare la distruzione del mondo contadino del pianeta in modo “responsabile”.

Incubo neolatifondista

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