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La politica di buon vicinato perseguita da Pechino è sottoposta ad una pressione senza precedenti. Per dirla tutta, si trova al suo punto più basso dalla fine della Guerra fredda. Uno dopo l’altro sono emersi di recente i motivi di conflitto con i Paesi confinanti. Dalle dispute territoriali con Vietnam e Filippine nel Mar Cinese meridionale alle tensioni con Birmania-Myanmar e Thailandia, relazioni bilaterali un tempo solide, se non sempre amichevoli, si sono deteriorate.
 
La decisione birmana di differire il progetto della diga Myitsone sostenuto dai cinesi ha scioccato Pechino. E anche l’uccisione dei 13 marinai cinesi sul fiume Mekong lo scorso ottobre serve a ricordarci nel modo più brutale che la frontiera terrestre meridionale cinese, presumibilmente pacifica – e che è stata tale per quasi 20 anni – oggi ha i tratti della più ostile delle aree di confine. L’opinione pubblica e il governo cinese sono molto costernati per l’incidente del Mekong, che, ancora una volta, sembra evidenziare l’incapacità del governo di proteggere i suoi cittadini da attacchi all’estero, nonostante lo status di potenza globale appena raggiunto dal Paese. Da ciò nascono due domande: perché i vicini della Cina decidono di disconoscere i suoi interessi? E perché, nonostante l’ascesa cinese, le sue autorità di governo sembrano sempre meno in grado di difendere le vite e gli interessi dei suoi cittadini all’estero?
 
Queste sono domande preoccupanti per la Cina, tanto da plasmare l’atmosfera della sua politica. Con la caduta di Mohammar Gheddafi in Libia, le aziende cinesi hanno perso circa 20 miliardi di dollari di investimenti che, come il nuovo governo libico ha lasciato intendere, difficilmente verranno recuperati. Molti cinesi sono allarmati dalla decisione del loro governo di evacuare i cittadini cinesi dalla Libia, e avrebbero preferito una presa di posizione più forte per difendere gli interessi commerciali nazionali in quel Paese. Allo stesso modo il successivo, e piuttosto improvviso, voltafaccia di Pechino, che ha riconosciuto il Consiglio nazionale di transizione ribelle come legittimo governo della Libia, ha sollevato molte perplessità all’interno. In fondo, la Cina ha speso importanti risorse politiche per opporsi alle missioni aeree Nato all’inizio della crisi, per ritrovarsi poi a sostenere le forze che la Nato aveva aiutato a prendere il potere.
 
Questo è stato, con tutta evidenza, il punto più basso della tradizionale diplomazia utilitaristica e mercantile di Pechino. Per molti cinesi la Libia è un punto lontano e fuori dall’orbita di una limitata capacità di proiezione di potenza del loro Paese: per questo l’enfasi sulla ricostituzione degli interessi commerciali cinesi è accettata con riluttanza, e poco compresa. Ma Myanmar e gli altri Paesi del bacino del Mekong sono ritenuti, a torto o a ragione, “buoni vicini”, e per di più a portata della potenza cinese: per questo motivo il risentimento dell’opinione pubblica per gli attacchi agli interessi cinesi in quest’area è così intenso. Tra questi interessi vi è anche un nuovo oleodotto che collega Myanmar a Kunming, la capitale della provincia dello Yunnan.
 
La Cina sta anche lavorando su progetti di connessione (reti ferroviarie e autostradali) che dovranno dare impulso ai legami economici e sociali con i Paesi dell’Asean. Gli incidenti del Myitsone e del Mekong hanno adesso allungato la loro ombra su questi progetti: il timore è che possano condurre ad una reazione a catena capace di distruggere gli sforzi ventennali della Cina di realizzare una maggiore integrazione regionale. Naturalmente, il nuovo governo di Myanmar non vuole esasperare gli animi alle sue già instabili frontiere settentrionali, dove gruppi di ribelli hanno utilizzato l’opposizione al progetto della diga per guadagnare consenso. Il nuovo governo cerca di integrare le forze politiche in queste regioni, in modo da indebolire i signori della guerra locali. È chiaro che la decisione di fermare la costruzione della diga va letta in questo contesto.
 
D’altra parte, gli investitori cinesi hanno fatto eccessivo affidamento sulla forza dei legami bilaterali sino-birmani, e per questo hanno fortemente sottovalutato i rischi politici del progetto. Il loro comportamento è anche esemplare del tipo di relazioni fiduciarie che nascono all’ombra del mercantilismo di governo, e dell’autoindulgenza delle imprese statali cinesi (che rappresentano la gran parte degli investimenti esteri), le quali possono permettersi di operare con trascuratezza, dato che si suppone che il governo le sosterrà comunque, e che al limite le salverà dal fallimento.
 
L’incidente del Mekong ci racconta un’altra triste realtà. Il fiume, che collega cinque Paesi, è stato a lungo il famigerato centro di reti criminali transnazionali fondate sul traffico di armi e droga e il gioco d’azzardo. Il boom economico cinese ha portato con sé sempre maggiore integrazione tra la Cina e le economie sommerse del bacino del Mekong. L’uccisione dei 13 marinai cinesi sul Mekong è spiegabile con questa nuova tendenza. Se la Cina vuole evitare tragedie simili, dovrebbe evitare di fare la voce grossa, e piuttosto sviluppare la cooperazione multilaterale per contrastare il crimine transnazionale lungo il Mekong.
 
Gli episodi della diga Mytsone e del Mekong mettono in luce le relazioni, improvvisamente tese, tra la Cina e i suoi vicini meridionali. La politica di buon vicinato, in fin dei conti, ha condotto la diplomazia regionale cinese sulle sabbie mobili. È certo che i Paesi dell’area non saranno affidabili per gli interessi cinesi, a meno che e fino a quando la Cina non comincerà a provvedere ai beni pubblici essenziali; non solo il commercio, ma un vero e proprio ordine regionale fondato sulla legge, il rispetto dei diritti umani e lo sviluppo economico. Altrimenti, gravi crisi come quelle avvenute sul Myitsone e sul Mekong sono destinate a ripetersi, accentuando il senso di isolamento e i timori della Cina.
 
© Project Syndicate 2012. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia
Cina

Incidenti di percorso

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