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Andando oltre le polemiche, sotto una conversazione avuta con lui due anni fa, in Sardegna.
 
“Chi le ma?” “Hai mangiato?”. È una strana frase da dire a qualcuno quando lo si incontra per strada. L’equivalente cinese del nostro “come stai?”. Un saluto comune tra le vecchie generazioni per le quali rispondere con un sì vuol dire “sto bene”. “Quando ero piccolo, negli anni Sessanta, noi bambini andavamo a cercare le bacche per mettere qualcosa nello stomaco”, spiegava Mo Yan due anni fa, in Sardegna per partecipare al festival letterario ‘L’isola delle Storie” di Gavoi. Per il più importante autore cinese contemporaneo il cibo fu la musa ispiratrice. “Decisi di prendere carta e penna in mano quando un mio amico mi disse di conoscere uno scrittore che mangiava tre volte al giorno”, ha raccontato. “Ci pensate? Tre pasti, mentre noi vedevamo la gente morire di fame”.
 
Nato a Gaomi nel 1955, Guan Moye -questo il suo vero nome- ha legato alla campagna tutta la sua opera. “In molti mi chiedono quando scriverò un romanzo ambientato in città. Sinceramente non lo so. Ci sono ancora troppe storie da scrivere sulla vita contadina”.
A undici anni abbandonò la scuola per il lavoro nei campi. “Parlavo molto e non andavo a genio al maestro”, raccontava, “Ero un bambino e non capivo che a quei tempi una parola di troppo poteva costare cara”. Anche per questo prima di uscire di casa la madre gli raccomandava di stare zitto, consiglio subito dimenticato appena varcata la soglia: “Mi sono ricordato di quella frase solo da adulto quando scelsi lo pseudonimo il Mo Yan (Colui che tace)”. “Andavo nei campi la mattina presto e tornavo la sera” ha raccontato , “per molti anni ho passato più tempo con gli animali che con gli uomini”. Un’esperienza messa a frutto nel romanzo ‘Le sei reincarnazioni di Xinmen Nao’, dove Mo rende gli animali -un cane, un toro, una scimmia, un asino e un maiale- gli spettatori privilegiati di cinquant’anni di storia cinese. La grande scuola dello scrittore furono gli anziani di Gaomi e l’esercito. “Passavo le ore a sentire i loro racconti”. Storie e leggende, ha ammesso, diventate materiale per i suoi libri. “All’inizio pensai: è troppo facile, sto solo raccontando storie tradizionali”. L’apprezzato scrittore venne però fuori soltanto dopo aver lasciato la campagna per arruolarsi nell’esercito. “Fare il soldato era un sogno per noi ragazzi: buon cibo, una bella uniforme e un giorno libero alla settimana. Cose inimmaginabili nel mio villaggio”. È in caserma che si formò “sui libri di Balzac, Calvino, Gabriel García Márquez”, ha raccontato.
 
“Mentre leggevo il ‘Visconte dimezzato’ battevo i pugni sul tavolo domandomi perché una storia così non mi fosse mai venuta in testa”. Mo scrive di contadini per parlare della Cina. “Uso il passato per descrivere il presente, nelle mie storie i lettori possono ritrovare loro stessi e la nostra società”. La stessa società che, nonostante i progressi e lo sviluppo, “ha visto aumentare la disuguaglianze tra ricchi e poveri e sta distruggendo l’ambiente”.
Passeggiando tra i vicoli di Gavoi, Mo si ferma e traccia su un pezzetto di carta alcuni caratteri non semplificati, come quelli usati in Cina prima della riforma della scrittura voluta dal governo tra gli anni Cinquanta e Settanta: “Sono più belli”, ha ammesso. Anche questo, forse, un esempio della sua ‘letteratura delle radici’.
 
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