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Forze armate troppo dipendenti dai carburanti fossili sono più vulnerabili in ogni teatro di guerra. Anche se a ribadirlo è un rapporto piuttosto recente del Center for Naval Analyses americano, l’affermazione non sembra una sconvolgente novità in campo militare.
 
Basterebbe citare i piani dei generali italiani e tedeschi (Rommel su tutti) annichiliti dalle perdite di naviglio (e relativo, preziosissimo carburante) negli anni della controffensiva britannica in Africa settentrionale. O alle divisioni Panzer delle Ardenne che, giunte a pochi metri dall’agognata meta, si videro esplodere sotto gli occhi la fonte necessaria del rifornimento: un deposito di carburante presso Bastogne. È dubbio che se fossero giunti in tempo si sarebbe realizzato quello scenario di rovesciamento del fronte che alcuni coltivavano al quartier generale tedesco (l’occupazione del porto di Anversa e il blocco degli sbarchi alleati nell’Europa nordoccidentale), tuttavia il fatto è significativo perché ci ricorda come la libertà di movimento sia un prerequisito della capacità di proiezione di potenza. Resta da capire come affrontare i due grandi fattori costrittivi di questa libertà di movimento: quello geografico e quello tecnologico.
 
Con la consueta attenzione ai problemi tattici ed operativi in un’ottica di grande strategia, gli Stati Uniti hanno già sviluppato un filone di analisi molto approfondita su questi temi, con un’esperienza sul campo che deriva essenzialmente dall’ultima fase della guerra in Irak, tra il 2006 e il 2009. Si è notato infatti che la maggior parte degli attacchi condotti dai ribelli si verificavano lungo le rotte di rifornimento battute dai convogli per il trasporto di carburante. I motori e i serbatoi, inoltre, per quanto protetti e corazzati, continuavano ad essere un bersaglio preferito degli agguati, moltiplicando con le loro esplosioni e incidenti la mortalità degli attacchi stessi. Un problema comune a tutte le forze di occupazione, che però ha sollevato le preoccupazioni del tenente generale Richard Zilmer.
 
Capo delle forze di occupazione nella regione di Anbar nel 2006 (una delle più turbolente), Zilmer è noto per aver redatto l’ordine di servizio “Priority 1”, in cui veniva affermata la necessità di aumentare il ricorso a fonti alternative, solari ed eoliche, per ridurre la frequenza dei convogli e l’esposizione “non necessaria” ai colpi della guerriglia. Il nodo è tutto in quel “non necessaria”. Lo sviluppo delle tecnologie dei biocarburanti, che in America ha radici industriali solide e radicate (con forti legami inter-americani, specie con il Brasile) è un salto tecnologico che incide sulla geopolitica, cioè sulla libertà di movimento delle sue forze armate.
 
Gli Usa cercano così anche di risolvere il problema dello Stretto di Hormuz, dove l’Iran con pochi concentrati sforzi potrebbe mettere in ginocchio le vie di rifornimento petrolifere globali, la cui chiusura anche solo per poche settimane causerebbe danni incalcolabili all’economia mondiale. La linea di pensiero strategico-militare americana affronta dunque il problema della transizione verde in termini pragmatici, di difesa e sicurezza nazionale. È in questo contesto che si comprende la previsione della Us air force di ricorrere entro il 2016 a carburanti non derivati dal petrolio per il 50% del totale, o della Us Navy di fare altrettanto con le energie alternative entro il 2020. È una novità di cui si dovrà tenere conto, perché non nasce dal confronto ideologico e partitico, ma da uomini e istituzioni che rappresentano la sintesi degli interessi dello Stato. Come il generale James T. Conway, comandante dei marines nella zona di Falluja, membro dell’Advisory board militare del Cna e coautore del rapporto citato; o come il generale Stanley McChrystal, capo del Comando congiunto delle operazioni speciali dal 2003 al 2008 (periodo durante il quale ha messo fine alla ribellione alqaidista in Iraq) e promotore della “transizione verde” dei marines.
 
Resta da vedere quanto di questo programma possa diventare realtà politica: i tagli al budget creano pressioni per ridurre la dipendenza dal petrolio, ma anche per contenere i necessari investimenti nell’infrastruttura alternativa.
 

 

La lezione verde dell’Iraq

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