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Una nostalgia quasi insopportabile avvolge una Gerusalemme “drogata dal proprio passato”. Vite personali dettate da avvenimenti storici sotto la costante minaccia di una guerra definita “terribile anche quando la si vince”. Per i bambini “tutto è una guerra” perché “dalle belle parole non si ricava niente”, mentre gli adulti impegnati in una bisognosa difficoltà quotidiana, si consolano con l’amore, conoscendo se stessi, imparando la solitudine.
 
Il monte del cattivo consiglio, uscito di recente in Italia, è stato considerato alla sua prima uscita nel ‘76 l’apice della nuova narrativa classica ebraica, posizionando l’allora giovane scrittore Amos Kalusner, in arte Oz, tra “i più grandi scrittori nella letteratura contemporanea” (Time magazine).
Un libro, una montagna, un luogo dove secondo la tradizione fu ordito il complotto dell’uccisione di Gesù e dove Abramo lasciò i suoi ragazzi prima di raggiungere il monte Moriah per il sacrificio di Isacco.
 
È l’ultima fermata della realtà, oltre alla quale la storia va interpretata in chiave personale. È il luogo scelto per il ballo nello splendido palazzo dell’Alto Commissario inglese, invitato ad “abbandonare il Paese prima che sia troppo tardi” da un ragazzo di nove anni, che scrive nel nome di una popolazione di immigrati sionisti ancorati nel proprio passato, guidati da una nostalgia in grado di oscurare il resto.
Con rara sensibilità letteraria, Oz riesce a descrivere e far vivere una logica emotiva di una realtà che si impadronisce dei propri abitanti, che assieme compongono il nucleo pulsante ed emotivo di Israele in un mosaico individuale, prima ancora che sociale.
 
La capacità di immergere dentro il nervo, talvolta dolente della società israeliana, per poi riemergere con un filo di ottimismo, fa parte delle caratteristiche che hanno reso Oz, più volte candidato per il Premio Nobel per la letteratura, uno scrittore e saggista stimato e ascoltato anche da primi ministri e presidenti in Israele. Oz che si esprime fiducioso sul futuro del Paese che “ama anche quando non lo può più sopportare”, ha sostenuto in più di un’occasione di far uso per la scrittura di due penne differenti, una per la narrativa e l’altra per i saggi politici.
Una necessità compresa e condivisa anche dallo scrittore amico di vecchia data A. B. Yehoshua che in un saggio dedicato al 70esimo compleanno di Oz, scrive: “Capisco il bisogno di difendere la scrittura letteraria dallo spazio pubblico e agitato della politica e dell’ideologia” e come metafora, riporta l’allegoria di due penne stilografiche vecchio stile, con un pennino fine e pungente per la politica, con quello largo per la letteratura.
 
“Le puntine cambiano” concorda Yehoshua “ma l’inchiostro è sempre lo stesso e il calamaio è uno solo, il calamaio della vita”.
E, in effetti, politica e ideologia sono presenti ovunque come ombre elusive che vanno e vengono, come il personaggio de La vita fa rima con la morte che prima di passare davanti alla finestra dello scrittore, si sistema i vestiti in modo da apparire ordinato qualora verrà menzionato nel libro. Ed è cosi che drammi familiari, madri enigmatiche o assenti, sentimenti di abbandono stretti a rimpianti e nostalgia si uniscono in un legame invisibile nella nuova generazione di ebrei, diversi e decisi a credersi nuovi e aspri come l’anonimo serpente velenoso abitante del deserto ove dominano leggi elementari: amore, onore e morte.
 
In una Gerusalemme posseduta da nostalgia e dal clima africano quasi offensivo per chi non è abituato, dove Shmuel Yosef Agnon e Martin Buber si incontrano per un gelato alla fragola al caffè Zichel, ci si sente circondati da quel che descrive Oz in Una storia di amore e tenebra senso/obbligo culturale di non leggere in tedesco o in inglese, insegnando ai bambini solo e soltanto l’ebraico, “forse per paura che la padronanza di tante lingue esponesse anche me stesso alle seduzioni della letale Europa”.

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