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L’interesse per le iniziative politiche dei cattolici in Italia è ampio. Da qualche tempo si sono riaccesi i riflettori su un mondo che per anni non si è mai fatto coinvolgere dalle tensioni esistenti tra i partiti cercando di lavorare nel quotidiano per il bene comune. Per comprenderne la ragione occorre guardare indietro nel tempo. Quando l’esperienza democristiana è finita, la Cei, guidata dal cardinal Camillo Ruini, ha preso in mano la situazione mentre l’elettorato cattolico si frammentava nell’Italia bipolare, in quella che è stata definita la sua diaspora politica. Negli anni della cosiddetta Seconda repubblica la scelta prioritaria dei vescovi si è dipanata a tre livelli: tutela della vita in tutte le sue fasi, dal concepimento fino alla morte naturale; riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia basata sul matrimonio e difesa dai tentativi di renderla giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione; tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli. Benedetto xvi li ha definiti valori non negoziabili.
 
Ma negli ultimi anni è emersa chiaramente la necessità di una nuova strategia, di cui sono consapevoli per primi gli stessi vertici della Cei. Si è infatti assistito ad una progressiva svalutazione, in campo politico, dell’eredità del cattolicesimo sulla scena nazionale. Non a caso, all’indomani delle elezioni che portarono alla formazione dell’ultimo governo Berlusconi, qualche testata giornalistica sottolineò l’assenza tra i membri del governo di esponenti del mondo cattolico. All’inizio di maggio del 2008 il Foglio titolava: “La scomparsa del ministro cattolico”. E qualche giorno dopo Famiglia Cristiana sottolineava che si era di fronte al “primo governo senza un solo ministro del mondo cattolico”. In difficoltà nel mondo politico e nella cultura politica emersa in questi ultimi anni, i cattolici sono però rimasti radicati nei gangli vitali della società, dalla cultura all’impresa, dalla sanità al volontariato, dal mondo del lavoro alle banche. Ma negli stessi anni si è creato un baratro tra il sentire della società e i palazzi della politica.
 
Nel settembre del 2008 Benedetto xvi, in visita a Cagliari, sottolineò il bisogno di “evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica” e parlò di “una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile”. Le agenzie titolarono che secondo il Papa serviva “una nuova generazione di politici cattolici”. Ma è evidente che la preoccupazione di Benedetto xvi era più larga: nel suo pensiero si coglieva la preoccupazione per un Paese che rischiava di non attingere più al patrimonio di valori ed elaborazioni di una componente decisiva della sua storia come quella del cattolicesimo.
In questi anni, fino ad oggi, le organizzazioni cattoliche hanno continuato a lavorare nella società cominciando però anche ad interrogarsi sul senso dell’appello cagliaritano e di quelli successivi di Benedetto xvi. Per questo non bisogna stupirsi quando il cardinal Bagnasco, nella sua ultima prolusione al Consiglio permanente della Cei, ha affermato: «Sembra rapidamente stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita – sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni».
 
È un via libera a un nuovo partito? Nulla lo fa immaginare. In aggiunta, l’invito a non farsi prendere da “nostalgie”, né a cedere ad “ingenue illusioni”, sgombrano il campo dall’ipotesi di un ritorno della Dc. Il problema del futuro prossimo non è – dunque – quello di un partito, ma l’avvio di un nuovo processo. Come ha scritto di recente Pellegrino Capaldo, «la questione del cosiddetto partito cattolico appartiene a schemi di analisi dai quali dobbiamo liberarci perché distorcono i fatti e non ci aiutano a comprendere la realtà». E la realtà sotto gli occhi di tutti è che ormai la politica è in crisi di credibilità e ha sviluppato una cronica incapacità di comunicare realmente con la gente, giustamente presa, invece, dalle difficoltà che la crisi ha introdotto nella vita quotidiana, nel reddito, nelle speranze per il futuro.
 
Quale ruolo, dunque, per i cattolici e per la loro rete organizzativa? A fronte della ormai accertata incapacità della politica di affrontare e risolvere i problemi da sola, c’è bisogno, come ha suggerito Andrea Riccardi di recente, di «un maggiore protagonismo dei laici». «In un’ Italia – ha sottolineato – dove tanti attori debbono prendersi le loro responsabilità, i cattolici hanno storicamente una partita da giocare». Tocca ai cristiani laici, organizzati nelle loro associazioni, cooperative, sindacati, volontariato, contribuire a ritessere una tela che abbia al centro il bene comune del nostro Paese. Sono loro che possono contribuire a colmare il baratro che si è aperto tra la gente e il Palazzo. Per questo si è registrata tanta attenzione verso la creazione di quel «soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica», evocato dal cardinal Bagnasco.
 
I cattolici hanno grandi risorse di energia, cultura ed esperienza da investire per contribuire al futuro del Paese. Infatti, oltre alle questioni decisive, relative alla vita, alla famiglia e all’educazione, possono mettere sul piatto anche proposte su lavoro, economia, salute, cultura, Europa, nonché suggerire interventi sui grandi scenari mondiali, come osserva Agostino Giovagnoli parlando dell’apporto che i cattolici possono dare ad “una politica ispirata da una visione storica e morale di grande respiro”. Nessun nuovo partito all’orizzonte, dunque, ma un processo in cui i cristiani sono chiamati ad essere protagonisti e che il convegno di Todi del 17 ottobre scorso, “La buona politica per il bene comune”, ha ulteriormente confermato.

Il motore del bene comune

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