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Il ritiro in aprile di Rick Santorum dalla corsa alla nomination repubblicana ha sancito di fatto che sarà Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, il candidato del Grand old party che sfiderà Barack Obama alle elezioni presidenziali americane del prossimo novembre. Nelle previsioni la campagna elettorale sarà centrata in prevalenza sulle questioni interne. La disoccupazione, le tasse, il debito federale e il big (o small) government saranno i temi dominanti. Salvo clamorose novità, la politica estera resterà sullo sfondo rispetto al nation building at home. Obama lo ha emblematicamente annunciato in Afghanistan il 2 maggio 2012, primo anniversario dell’uccisione di Osama Bin Laden: dopo «una decade di conflitti all’estero e di crisi economica interna, è tempo di rinnovare l’America – un’America dove i nostri bambini vivano liberi dalla paura e abbiano le capacità di seguire i propri sogni».
 
Eppure gli Stati Uniti rimangono, e rimarranno, una potenza globale con responsabilità e impegni mondiali. La ricerca del consenso short term e le scadenze elettorali non sono perciò sufficienti a eclissare le priorità internazionali del presidente che governerà dal 2013 al 2017.
Per una comprensione della visione del mondo di Romney, è opportuno analizzare il pensiero di Kagan, ovvero l’influente e “importante studioso di politica estera e militare”, così definito dallo stesso Romney.
Di recente anche Obama ha dichiarato di averne particolarmente apprezzato gli ultimi lavori; tuttavia, difficilmente questi potrebbero essere identificati come apologia dell’attuale amministrazione.
 
La dottrina Obama, esplicitata a Il Cairo nel giugno 2009, vedeva nella retorica del nuovo inizio un’apertura al multilateralismo, che la precedente presidenza di George W. Bush aveva spesso sottovalutato e, talvolta, accuratamente evitato. Obama aveva chiarito che l’eccezionalismo americano per gli americani non era poi così diverso dall’eccezionalismo greco secondo i greci e da quello britannico per i britannici. Gli Usa si allontanavano così dai tratti universalistici della retorica del manifest destiny per privilegiare dichiarazioni ben più concilianti. Per Romney, era il “tour di scuse di Obama” e anche Kagan rifiuta la dottrina Obama, ritenendo l’idea del declino degli Stati Uniti infondata: in diplomazia l’America partirebbe ancora da una posizione di forza. La tesi è dimostrata sulla base di tre indicatori: la dimensione e l’influenza relative dell’economia; la potenza militare comparata; il grado di influenza politica nel sistema internazionale.
 
Nonostante la recente recessione e l’alto debito pubblico, la posizione americana nel mondo sarebbe rimasta immutata: gli Stati Uniti producono ancora un quarto del Pil globale, e la recente crescita di Cina e India non avrebbe intaccato la leadership Usa, quanto la posizione dell’Europa e del Giappone. Dal punto di vista militare, l’egemonia americana, secondo Kagan, rimane incontrastata: il livello tecnologico degli armamenti e le sea power capabilities resterebbero dominanti in termini sia relativi sia assoluti. Nemmeno la capacità politica di influenzare il mondo sarebbe mutata drasticamente: le difficoltà che riscontra Washington nell’attuale sistema internazionale, se comparate su un piano storico, non sarebbero poi così differenti rispetto a quelle dell’era della Guerra fredda.
 
Kagan riscontra inoltre una peculiare simmetria tra l’odierna tesi declinista e quella di fine anni Settanta. Molti storici reputano che la parabola declinante degli Stati Uniti fu invertita negli anni Ottanta dall’audace politica economica di Ronald Reagan, accompagnata a sua volta da una politica estera assertiva, la quale causò la caduta dell’Unione Sovietica. Nei suoi lavori Romney cavalca questo parallelismo, e rilancia: Obama come Jimmy Carter. Carter non ha lasciato un ricordo positivo nell’immaginario americano: un presidente che acuì l’impressione che Washington fosse ovunque sulla difensiva, debole nel rispondere alle sfide lanciate dall’Urss e oltremodo maldestro in Iran. Per policy e retorica, Obama – sulla scia di Carter – rappresenterebbe un distacco dal passato, una rottura con alcuni degli assunti chiave che hanno sostenuto per sei decadi la politica estera americana. Secondo Romney, Obama – come Carter – «trascende l’America invece di difenderla», insegue invece che guidare il mondo, aspira al compromesso invece che «confrontarsi con i nostri avversari».
 
Oggi, come allora, il declino sembrerebbe una tentazione. Come resistergli? La risposta per Kagan è una: «Ci sono sporadicamente “critiche elezioni” che consentono alle trasformazioni di verificarsi, fornendo nuove soluzioni politiche a vecchi e apparentemente insolubili problemi». Il prerequisito che individua è il rinnovamento del tessuto economico del Paese: esso costituirebbe la chiave di volta per continuare a sostenere l’egemonia americana.
Come anche evidenziato dal Plan for jobs and economic growth di Romney, i pilastri interni per il mantenimento di una posizione predominante nel mondo riguarderebbero la riduzione del deficit e del debito pubblico e il sostegno alla competitività tra imprese. Insomma, una politica economica ricalcante per alcuni versi la Reaganomics, presa a modello da Romney, e agli antipodi invece della Obamanomics, caratterizzata dall’intervento dello Stato. A ben guardare, il principale benchmark che nell’immaginario differenzia le due presidenze riguarda proprio la politica estera; Carter fallì clamorosamente in Iran, mentre Obama ha raccolto il più grande successo del suo mandato liberandosi del nemico numero uno dell’America: Bin Laden. Il tentativo di Romney di proporsi come un “nuovo” Reagan è d’altronde chiaro.
 
Per gli Stati Uniti e per i suoi alleati, il futuro presidente sarà comunque chiamato a invertire la percezione di un’America in declino. Chiunque si insedierà alla Casa Bianca nel gennaio 2013 dovrà andare oltre la retorica, in un xxi secolo che appare sempre meno occidentale, dimostrando con i fatti, come sostiene Obama, che «chiunque affermi che l’America è in declino e che la nostra influenza è in diminuzione, non sa di che cosa sta parlando».

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