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La situazione italiana, rispetto al grosso dei Paesi europei, presenta ritardi gravi. Alcuni con origini lontane, altri provocati da un governo “televisivo” che nei confronti dei media diversi dalla tv alterna indifferenza, tagli e misure discriminatorie spesso segnate dal conflitto d’interessi. E che, in particolare verso Internet e la sua libertà, manifesta una certa ostilità. Appare assai lontana la consapevolezza del rischio per l’Italia di restare indietro nell’era digitale: siamo l’ottava economia industriale ma solo la ventesima economia digitale al mondo, ma continuiamo a parlare d’altro.
E così l’Italia resta il solo grande Paese privo di una propria “agenda digitale”. A distanza di oltre due anni dall’annuncio del primo Piano del governo, redatto da Francesco Caio, non sono stati ancora assegnati fondi pubblici necessari per un’opera di tale rilevanza.
E anche il più recente annuncio del ministro Romani, che nel febbraio scorso ha promesso di sbloccare almeno 100 degli 800 milioni annunciati nel 2009, rischia di restare confinato alle buone intenzioni. È vero che gli investimenti diretti dello Stato non avranno comunque un ruolo determinante: il fatto più grave, infatti, non è la mancanza dei soldi pubblici promessi ma che non si sia ancora individuato un progetto di sviluppo chiaro che porti anche l’Italia al passo delle nazioni più avanzate.
 
È giunto il momento di colmare questo vuoto, e a questo servono gli appelli come quello che invoca la decisone di una “agenda digitale”.
A questi appelli deve essere particolarmente sensibile chi, dall’opposizione, propone per l’Italia un’agenda di riforme e forti cambiamenti. Il digitale non può che essere una delle grandi priorità per chi vuole dare una scossa all’economia e alla società italiana.
Il primo obiettivo dell’“agenda digitale” è garantire l’accesso alla banda larga a tutti, cittadini e imprese, indipendentemente dall’ubicazione geografica, a costi accessibili e senza forme di censura o discriminazione, secondo il principio di neutralità della rete così definito dalla Fcc negli Stati Uniti: «Tutti i consumatori devono avere il diritto di accedere a tutti i contenuti fruibili su Internet».
Naturalmente, garantire la connessione alla rete in banda larga è un prerequisito imprescindibile ma rappresenta solo il primo passo, la premessa di una strategia di sviluppo centrata sul digitale.
 
I risultati più importanti possono venire dal sistema delle imprese, specie in un contesto di piccole e medie imprese ancora scarsamente digitalizzato come quello italiano. Il ritardo, in questo campo, è un rischio mortale, come dimostrano i casi frequenti di delocalizzazione a causa di mancanza di banda di imprese anche di avanguardia collocate in territori non certo sottosviluppati (penso ad alcune aree del Piemonte e del Veneto). Ma accanto ai rischi, non meno evidenti sono i benefici: il futuro del digitale non riguarda lo sviluppo di un singolo settore ma è condizione di crescita dell’intera economia e gli investimenti in questo campo vedono sestuplicato il loro valore.
Non meno importante è il capitolo dell’agenda relativo alla Pubblica amministrazione. Qui innovazione digitale significa innanzitutto due cose, entrambe cruciali: burocrazia più semplice per cittadini e imprese e riduzione della spesa a parità di servizi. Nella nostra Pubblica amministrazione si tratta di ridurre il volume di annunci e proclami e di accrescere gli impegni per la trasparenza e la digitalizzazione, magari introducendo, almeno per quel 70% dei Comuni italiani che non sono in digital divide, delle date certe per un vero e proprio switch off dell’erogazione di alcuni servizi su carta. Ovviamente accompagnando lo switch off con l’allestimento di postazioni digitali assistite negli uffici comunali al fine di rendere fruibili servizi on line anche ai cittadini del tutto privi di alfabetizzazione digitale.
 
Ma è nel mondo dei media e dei consumi culturali che il digitale sta provocando una vera e propria rivoluzione. E questo ha un valore tutto particolare in un Paese come l’Italia caratterizzato dalla perdurante posizione dominante di un oligopolio televisivo in evidente conflitto di interessi.
Il passaggio dal broadcasting al web cambia il ruolo dei media. Con gli old media la comunicazione è da un´emittente a molti spettatori, con i new media l’informazione è a rete, sociale. Si tratta, per dirla con la folgorante definizione di Manuel Castels, di “mezzi di auto-comunicazione di massa”.
Questo passaggio ha prima rivoluzionato l’industria musicale e ora si sta facendo sentire nel mondo dell’audiovisivo, dei giornali e dei libri. Nel complesso è un passaggio molto positivo, che può ridurre le posizioni monopolistiche e comunque accresce l’offerta a disposizione dei cittadini. Ma tutto questo richiede politiche pubbliche adeguate, non dominate dall’avversione per la rete o dalla difesa delle rendite garantite dal conflitto di interessi e al contrario protese ad accompagnare e sostenere la trasformazione in atto.
 
La rivoluzione digitale può essere infine anche uno degli antidoti al progressivo impoverimento della partecipazione a tutti i livelli. Dalla vita interna dei partiti al rapporto tra cittadini ed eletti e tra cittadini e amministrazione pubblica la rete può assicurare maggiore informazione e una più accentuata trasparenza. E soprattutto può rendere possibile quella cittadinanza attiva che è uno dei requisiti di una democrazia che funziona e decide.
Non mi sfuggono, infine, le insidie che si nascondono in questo nuovo universo dell’economia e della comunicazione digitale. In parte dettate da comportamenti criminali, presenti in rete come in qualsiasi spazio pubblico; e in parte da sfide nuove, da quelle alla privacy alla remunerazione dei diritti di chi produce contenuti ai rischi di degenerazione faziosa del confronto di posizioni on line. È bene che la politica conosca la natura di queste insidie e lavori su nuove regole, quando sono necessarie. A patto di non danneggiare, per ignoranza o per interesse, una delle fondamentali leve del nostro sviluppo futuro.

Il futuro alle nostre spalle

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