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Nei suoi Ricordi, Massimo d’Azeglio scrive che, all’indomani dell’Unità, «il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani». L’affermazione è rilevante. Il 17 marzo 1861, infatti, è nato per decreto, con l’assunzione del titolo di re d’Italia da parte di Vittorio Emanuele ii, un soggetto istituzionale nuovo: lo Stato. E nel 2011 cadrà l’anniversario della nascita dello Stato. Ma una volta fondato lo Stato, bisogna «fare» sostiene d’Azeglio gli italiani, cioè costruire la nazione. Con ciò rivela una profonda verità: le nazioni non preesistono rispetto agli Stati. Al contrario, sono gli Stati con i loro processi istituzionali di reductio a unum nel settore legislativo, burocratico, amministrativo, fiscale, culturale, educativo a costruire le nazioni, che sono realtà immaginarie.
 
Lo Stato unitario – osservando la sua vicenda storica nella lunga durata – non è tuttavia riuscito a costruire la nazione italiana con successo. Se è vero che – per esempio – l’unificazione linguistica del Paese è arrivata con la tivù, negli anni Cinquanta. Se è vero che il patriottismo affiora, nella società civile, solo di fronte ai successi della nazionale di calcio, della Ferrari e di Valentino Rossi. Non è espressione di virtù civiche e di partecipazione politica.
Recenti sondaggi rivelano che la storia unitaria – l’idea, quindi, di un passato comune – è considerata un elemento identitario solo dal 50% degli italiani. Ciò significa che altrettanti non la ritengono un elemento essenziale dell’identità italiana. L’Unità nazionale viene considerata un bene rinunciabile o modificabile dal 70% della popolazione (sette italiani su dieci). La storia nazionale è il racconto autobiografico di un Paese ed è funzionale alla sua autorappresentazione identitaria, cioè all’immagine che esso vuole dare di sé. La memoria storica risulta pertanto un elemento essenziale dell’identità nazionale; ogni popolo ha infatti bisogno di storia per fare ordine nel proprio passato e selezionare gli eventi che ne scandiscono le tappe principali. Non c’è identità senza memoria storica. Ma la vicenda italiana, nel suo secolo e mezzo di vita, rivela la sostanziale incapacità di raccontarsi come nazione in modo persuasivo e convincente.
 
Con la sua frase, d’Azeglio ha delegittimato anche l’esperienza storica e politica del Risorgimento che, pur nel quadro di un notevole slancio etico e civile, ebbe un limite, quello di ottenere l’indipendenza dei vari popoli della Penisola, senza tuttavia approdare alla libertà, intesa quale rigenerazione morale da porre a fondamento della cultura politica del Paese. Tutto si consumò in un passaggio politico e amministrativo che si oppose alla tradizione civica del pluralismo territoriale della penisola, dove affondano le radici libertarie dei popoli che la compongono.
Ci provò lo Stato liberale a raccogliere l’eredità politica e culturale patriottica del Risorgimento. Ma non vi riuscì. Poi vi tentò il fascismo che, animato da una volontà nazionalista, delegittimò – a sua volta – l’esperienza storica dello Stato liberale, spezzando la continuità postunitaria. Una continuità rotta anche all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando il Paese voltò pagina: archiviò la monarchia per diventare Repubblica, seppellì il totalitarismo per diventare democrazia. Non si tratta di mettere in discussione lo slancio del Risorgimento e della Liberazione e neppure di negare l’avvento dello Stato, nel 1861, come prodotto di modernità. Ma la struttura dello Stato (burocratico e accentratore) – questa sì – può essere messa in discussione. Anche perché, dopo la sua nascita, nel 1861, venne negata la convocazione – sulla scia dei principi dottrinari del costituzionalismo europeo –di un’assemblea costituente, in cui si sarebbero potuti confrontare i diversi progetti politici, tra l’opzione unitaria e quella regionalista, tra l’ipotesi federalista e quella confederativa. Che era la più gettonata per la struttura geopolitica della penisola, articolata nei sette Stati preunitari. E avrebbe definito un destino simile a quello della Svizzera o degli Usa, che nacquero come confederazioni e si trasformarono in federazioni. Fondato lo Stato sul modello giacobino-napoleonico, da allora la prospettiva federalista ha assunto la fisionomia di un processo non già e pluribus unum (federalismo per aggregazione), bensì ex uno plures (federalismo per disaggregazione). Ma i progetti in tal senso furono sistematicamente accantonati, a cominciare dal grande disegno di Marco Minghetti, ministro degli Interni di Cavour, presentato alla Camera quattro giorni prima della proclamazione dell’Unità, il 13 marzo 1861. Fu l’Unità a creare la frattura territoriale nordsud, a disvelare una diversità culturale e sociale, economica e produttiva, profonda. In tali circostanze nacque il concetto di Mezzogiorno, mentre le regioni settentrionali già marciavano in perfetta armonia con il resto dell’Europa. E il confronto delle nuove istituzioni dello Stato e della sua nuova classe politica con gli ordini politici preunitari e le élites politiche che li governavano è sempre stato svantaggioso, spesso perdente.
 
Il Giubileo del 2011 ha due precedenti storici nel 1911 e nel 1961. All’inizio del secolo, la ricorrenza venne celebrata con un’esposizione internazionale dell’industria e del lavoro, a Torino, che illustrava i successi conseguiti dal Paese nel settore produttivo. Nel 1961 il Paese era nel pieno del miracolo economico: ricorrendo all’uso delle nuove tecnologie della comunicazione (radio e tv di Stato), si sottolinearono i successi dello sviluppo economico.
Dietro i progetti celebrativi del 1911 e del 1961 si potevano dunque individuare due idee forti e due progetti per il Paese.
Su quale idea forte si può puntare nel 2011? I dati sono impietosi: nel corso del 2008 il Paese ha superato i 60 milioni di abitanti. Ma la popolazione italiana diminuisce a favore di quella straniera, che ammonta ormai a circa tre milioni e mezzo. L’indice di vecchiaia ha subito un’impennata; il numero medio di figli per donna è calato e il saldo di incremento naturale della popolazione è negativo (-8,5%). L’indice di litigiosità nelle regioni del sud è ancora molto elevato, come lo sfruttamento della prostituzione e la malavita, l’evasione e la corruzione. Il tasso di disoccupazione è preoccupante, soprattutto per i giovani al di sotto dei trent’anni d’età, così come il debito pubblico. Ogni bimbo che nasce ha 31mila euro di debiti, senza averne colpa.
Alla luce della storia unitaria e del dibattito storiografico che punta alla sua revisione per effetto delle sollecitazioni del presente, l’unico modo di festeggiare il 150esimo dell’Unità dovrebbe essere quello di celebrare il Paese che non c’è, quello che verrà: l’Italia federale. Per fare i conti col passato, rifondare le istituzioni e la politica, ma anche la socialità, ricomporre nuove e antiche fratture. Potrebbe essere questa la vera rivoluzione che il Paese non ha mai avuto.

Le ragioni del federalismo

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