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Ospitata dalla Galleria nazionale di Arte moderna di Roma, dove rimarrà fino a settembre, apre Warhol: headlines, a cura di Molly Donovan. La mostra arriva dalla National Gallery di Washington e presenta circa 80 opere ricavate per lo più da pagine di giornali fra gli anni ‘60 e ‘80. La tappa italiana è particolarmente importante perché espone la gigantesca riproduzione della prima pagina del Mattino di Napoli che, dopo il tragico terremoto del 1980 titolava “Fate presto” e che normalmente si trova alla Reggia di Caserta.
 
Gli interventi dell’artista americano sui giornali sono stati di vario tipo: riproduzione, ingrandimento, ricolorazione, anche in collaborazione con miti del graffitismo come Haring e Basquiat. L’attenzione di Warhol si sofferma soprattutto sulle icone pop come Sinatra, Madonna o la Regina Elisabetta, ma anche su catastrofi e omicidi politici. Le riflessioni di Warhol sul nostro rapporto con la cultura di massa trasformano le intuizioni dell’avanguardia storica in un sistema estetico e interpretativo della cultura mediatica: il meccanismo della notizia viene svelato nella sua ripetitività quasi cerimoniale e lo spettatore invitato a prendere parte alla rappresentazione.
 
Quando Duchamp esponeva un orinatoio, decontestualizzava un oggetto vile, svelando l’irrazionalità dell’operare artistico. Warhol va oltre, tornando alla rappresentazione e dimostrando che l’aura si democratizza. In effetti l’artista non si limita a esporre prime pagine incorniciate, ma le “dipinge” in diverse maniere, contando sull’evocazione generata nell’esperienza collettiva del pubblico. In questo senso l’artista aveva compreso le dinamiche contraddittorie generate nella società dal libero accesso ai mass-media e ai beni di consumo.
 
Visitando la mostra durante l’inaugurazione si notavano i visitatori assiepati non solo vicino le opere dipinte, ma soprattutto accanto alle vecchie pagine di giornale, esposte in apposite teche. Il sorgere di questa attenzione per il vintage, che l’artista ha fatto in tempo a osservare, porta quasi alle estreme conseguenze il ragionamento di Warhol: il pubblico ha compiuto un definitivo processo di individualizzazione, finendo per proiettare aura a piacimento su qualunque oggetto, anche non necessariamente suggerito dall’artista. Di questa tendenza, un fenomeno come il vintage è una delle manifestazioni più evidenti. L’aura proiettata su tali oggetti non riguarda una particolare artisticità né un particolare pregio.
 
L’oggetto non è prezioso in sé, ma diventa fonte di piacere proprio per la sua antiquata banalità. Senza fare riferimento alla madeleine proustiana, diventa importante solo per i ricordi che attiva. Proprio per questo l’opera d’arte non nasce più nell’oggetto intrinseco, ma nel cervello dello spettatore, che isola l’oggetto tramite una sorta di cornice mentale, proiettandogli attorno una rete di relazioni che riguardano se stesso e la propria temporalità. L’estetizzazione passa dalla firma dell’artista all’esperienza vitale del visitatore o dello spettatore, dunque i processi di autorialità si espandono in campi ormai abbastanza inconsueti. Così siamo oltre le premesse teoriche sia di avanguardisti come Duchamp sia di post-avanguardisti come Warhol.
 
Indice delle cose notevoli:
* Il catalogo di una mostra con importanti saggi critici: Achille Bonito Oliva, Ada Masoero, Laura Ravasi, Andy Warhol. Un mito americano, Milano, Mazzotta, 2003
* Un approfondito saggio critico sulla pop art: Arthur C. Danto, Andy Warhol, Torino, Einaudi, 2010

Andy Warhol, i media e l'effetto vintage

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