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Passaggio dalla spesa storica al costo standard (le varie funzioni non verranno più finanziate secondo quanto si è speso negli anni precedenti, ma sulla base di un parametro di efficienza), maggiore autonomia impositiva per le Regioni e le Istituzioni locali, meccanismi di perequazione per garantire i territori meno avvantaggiati del Paese. E poi istituzione di Roma Capitale, premi per gli enti locali virtuosi (che dovranno portare ad un fisco più leggero per i cittadini amministrati) e sanzioni per quelli che non si dimostreranno tali.
Sono questi, in sintesi, gli aspetti principali della legge delega in materia di federalismo fiscale ed i decreti attuativi sui quali la Commissione bicamerale da me presieduta sta esercitando i previsti poteri di controllo e indirizzo. Un lavoro delicato e di fondamentale importanza, dal momento che i costi della riforma dipenderanno in buona parte proprio da come saranno scritti questi decreti attuativi.
L’Italia ha una sua specifica peculiarità, che le deriva dal divario tuttora esistente fra il nord ed il Mezzogiorno del Paese. Per questo motivo stiamo cercando di costruire un federalismo fiscale solidaristico e nazionale, che abbia comunque e sempre, come punto di riferimento, la tutela dell’unitarietà dello Stato alla quale opportunamente ci richiama spesso il presidente Napolitano nei suoi interventi. Un federalismo nel quale, altresì, non si deve correre il rischio di sostituire ad un centralismo di carattere statale un centralismo di carattere regionale. Con un nuovo sistema, articolato su base periferica, che ripeta tutti i difetti del sistema attuale, soltanto trasferiti su un livello di governo inferiore.
Fattore non secondario da tener presente è che ci troviamo a scrivere le regole del federalismo fiscale in un momento di recessione e di crisi internazionale. A questo proposito, se da un lato va respinta la valutazione decisamente pessimistica contenuta nell’ultimo rapporto di Moody’s dedicato al nostro Paese (secondo cui il federalismo fiscale rappresenterebbe per l’Italia un fattore di incertezza), dall’altro dobbiamo comunque stare molto attenti – e lavorare di conseguenza – affinché quella che può e deve rappresentare un’occasione di sviluppo si trasformi in un ulteriore elemento di squilibrio fra le zone più ricche e quelle più in difficoltà.
Per scongiurare questo rischio, un ruolo di particolare rilevanza sarà giocato dal meccanismo perequativo. Come ha rilevato infatti il sociologo Luca Ricolfi, “l´impianto della legge 42 sul federalismo fiscale è tutt´altro che egoistico, dal momento che prevede massicci interventi di redistribuzione a favore dei territori deboli, nonché un percorso di transizione così lungo e graduale da consentire a qualsiasi amministrazione di rimettersi in carreggiata”.
È stato anche scritto che l´Italia è un Paese plurale pressoché per definizione. È infatti il Paese delle 100 Città e degli 8mila Comuni, in cui la struttura economica è diversa da regione a regione, se non da provincia a provincia. Paradossalmente, tutto in Italia è federale, ma non ancora la struttura dello Stato. Uno Stato che, così com´è fatto, non possiamo più permetterci, in termini di sostenibilità economica. Ecco perché sul federalismo fiscale si concentrano grandi speranze: un’amministrazione pubblica più vicina ai cittadini è di per sé costretta ad essere più efficiente, eliminando gli sprechi nei programmi di spesa e, di conseguenza, riuscendo a perseguire anche l’obiettivo di una riduzione della pressione fiscale complessiva.
È ovvio che il federalismo fiscale può innescare comportamenti virtuosi solo a patto che si stabilisca un legame diretto fra spesa e prelievo: il politico locale sa che se non contiene le spese e le imposte pagherà un prezzo politico. E ciò è possibile solo se, trasferimenti perequativi dalle Regioni ricche a quelle povere a parte, i governi locali avranno ampi margini nelle scelte delle aliquote e le basi imponibili locali saranno ben visibili ai cittadini. Solo in quel caso, infatti, l´aumento delle tasse, o la loro mancata riduzione, non verrà imputato dai cittadini allo Stato centrale ma agli amministratori regionali e locali.
Per questo motivo, ritengo di fondamentale importanza che, entro la fine della Legislatura si giunga alla definizione complessiva del federalismo fiscale, che può essere considerato la madre di tutte le riforme, cui dovrà far seguito quella istituzionale (con, in particolare, l’istituzione del Senato federale), quella dei regolamenti parlamentari, il nuovo Codice delle autonomie e la riforma fiscale.
Come ha osservato il politologo Angelo Panebianco, infatti, “non c´è dubbio che se davvero arriverà il federalismo fiscale, la fisionomia del nostro sistema statale cambierà. Non subito, magari. Ma col tempo cambierà, e di parecchio”. Aggiungendo poi, in riferimento al rapporto nord-sud, che “in epoche intellettualmente più felici per il Mezzogiorno è esistito un pensiero meridionalista di grande qualità e spessore che ha guardato anche al federalismo come ad un possibile motore di sviluppo, ad un mezzo di emancipazione economica e sociale”.
L’attuazione del federalismo fiscale – che, peraltro, andrebbe ad affiancare funzionalmente la zoppicante riforma del Titolo V varata nel 2001 – rappresenta dunque la vera sfida per il futuro del nostro sistema Paese. Ma per essere una sfida vincente dovrà essere in grado di contemperare le esigenze di tutte le aree territoriali della Repubblica. Il che significa che, quanto meno al suo avvio, dovrà far emergere in maniera forte le sue caratteristiche solidali. A regime, poi, si giungerà all’obiettivo ormai ampiamente condiviso di un sistema che veda i cittadini sempre più in grado di verificare la giusta utilizzazione dei tributi versati. Il che servirà anche a responsabilizzare le amministrazioni locali, riducendo –fino ad un loro completo azzeramento – gli sprechi e le malversazioni.
Come opportunamente ha ricordato il filosofo Massimo Cacciari, “la parola federalismo viene dal latino foedus, che significa patto, ed è quindi importante che lo si intenda in modo conforme al suo etimo. Che abbia cioè questa natura di accordo alla base. Se il federalismo non è aggregativo non è vero federalismo. Certo, la storia italiana ha una lunga tradizione centralista ed è innegabile che il Paese non sia nato su base federalista. Ma io sono convinto che il Paese non uscirà dalla sacca senza una riforma di questo tipo”.
Anche da questa considerazione emerge in ogni caso l’ormai ampia condivisione dell’obiettivo da perseguire. Per il governo e la maggioranza, in raccordo il più possibile con le opposizioni, il federalismo fiscale risulterà dunque una scommessa vincente solo se si riuscirà a costruire un impianto normativo bilanciato e funzionale in base a quel principio di responsabilità che è cardine del percorso che abbiamo in mente. Un equilibrio sostanziale, e non solo di forma, fra i vari livelli istituzionali della Repubblica così come ridefiniti dai rinnovati articoli 114, 117 e 119 della Costituzione.

Il cantiere federalista

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