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Il tempo è una risorsa che gioca a favore o contro la politica italiana? L’interrogativo circola sempre meno sotto voce nel Palazzo. Che il futuro appaia più minaccioso che speranzoso è invece la terribile certezza che pervade il Paese, e il Vecchio continente più in generale. Le prospettive di crescita e di ripresa, checché le fanfare dei governi, di tutti i governi, siano in piena azione, sono e restano molto basse. Il circo Barnum della globalizzazione sregolata unito ai fuochi – piromani più che pirotecnici – della finanza internazionale ha messo in moto processi di una portata tale che sarà obiettivamente difficile trovare rimedi risolutivi nel breve periodo. Mentre bruciavamo le risorse che già non avevamo più, non ci siamo resi conto che la società cambiava e cambia ancora sotto i nostri occhi distratti. A Milano i cinesi con il cognome Hu sono in numero maggiore agli italiani con il classico cognome meneghino Brambilla. Negli Stati Uniti è stato certificato che i bianchi sono una minoranza. Non parliamo poi della contratta diffusione del cristianesimo e dell’avanzata dell’islam. Nel tempo recente è andato consolidandosi un equilibrio diverso dal passato. Non si è ancora stabilizzato, e non ha determinato una nuova governance. Ma l’equilibrio che c’era non ci sarà.
 
La fine delle certezze pone ciascuno di noi in un atteggiamento di paura e preoccupazione. In Grecia e Spagna abbiamo visto le lunghe code dei cittadini davanti alle loro banche. Da noi la fuga dei capitali è stata se possibile anche maggiore, ma più raffinata e senza la fila agli sportelli. Ragioni obiettive e ragioni emotive stanno determinando un avvitamento pericolosissimo. Su Internet, nelle televisioni e nelle radio, è facile sentire politici, economisti e commentatori vari prendersela con le banche. Troppo facile. Non è trovando di volta in volta un parafulmine su cui scaricare le responsabilità che se ne verrà fuori. Nel frattempo, anche per non aver voluto più che potuto capitalizzare le nostre imprese, lo shopping internazionale sta facendo incetta di aziende italiane innovative e, nonostante tutto, competitive. Allo stesso modo stiamo lasciando che alcuni dei nostri Campioni nazionali muoiano per non essere capaci di esprimere un indirizzo industriale che sia minimamente strategico. Pur senza consapevolezza, ci stiamo scoprendo vulnerabili sul piano interno (nuove forme di terrorismo e protesta sociale) e sul piano esterno (dipendenza da vincoli extra-nazionali).
 
Vince la distrazione, la rincorsa all’ultima emergenza. Si cerca così di conquistare quel tempo che però non condurrà alla salvezza ma alla condanna. Invece di attendere l’inesorabile fine, pensando di poter giocare ancora alla roulette di un potere ormai solo evanescente, chi è al governo dovrebbe essere capace di realizzare uno scarto. Non aspettando ma accelerando, anche dal punto di vista della propria durata. In ogni caso, è necessario liberarsi dei paraocchi che costringono alla vista della punta del proprio naso. Occorre lavorare sulla cultura, sulla capacità di analisi e di visione. Più politica (nel senso alto del termine) e meno chiaroveggenza o spettacolarizzazione. Il rapporto fra Stati, le idee stesse di nazione e di democrazia, il concetto di natura e di sviluppo economico, l’innovazione tecnologica, il dialogo interreligioso, la sicurezza energetica come quella militare: sono tutti pezzi di un caleidoscopio utile a interpretare un futuro che si sta già dispiegando. La vecchia cassetta degli attrezzi politici e culturali è giusto lasciarla in soffitta o portarla in un museo di modernariato. Ora servono strumenti nuovi. Ci sono, vanno solo utilizzati e valorizzati.

L'orologio e gli altri attrezzi

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@daw_blog

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