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Se la Seconda repubblica si avvia a mesta conclusione, rimane aperto il problema storico che ha segnato l’ultimo ventennio della storia italiana: l’incapacità della politica di uscire dalla crisi di legittimità che nei primi anni Novanta travolse la Prima repubblica. Una crisi da cui la politica non si è più ripresa, navigando a vista tra partiti personali strettamente legati ai destini di un unico leader e partiti che hanno provato freneticamente a reinventarsi senza mai riuscire a diventare organizzazioni vitali e capaci di dialogare con la società civile.
 
I molti ritardi che l’Italia ha accumulato in questo ventennio sono anche figli della debolezza della politica. Una debolezza paradossale, in un Paese dove ogni aspetto della vita pubblica sembra contaminato dai condizionamenti della politica. Eppure è una contaminazione occulta, che assume forme trasversali senza mai diventare trasparente assunzione di responsabilità di fronte agli elettori e all’opinione pubblica. Il caso della legge elettorale è naturalmente quello più clamoroso, se la facoltà di decidere nomi e cognomi dei parlamentari italiani è stata sottratta al giudizio degli elettori e affidata in esclusiva ad un ristretto gruppo di professionisti della nomina. Ma altrettanto grave è l’esempio del neostatalismo municipale, che ovunque a livello locale vede tornare la mano dei partiti nella gestione economica con il risultato di ridimensionare gli spazi della concorrenza e di viziare la libera competizione imprenditoriale. Su tutto, l’incapacità della politica di mostrarsi coerente e responsabile (“accountable”, prendendo a prestito dall’inglese) rispetto alle posizioni e alle promesse assunte nel passato anche recente. Quante volte abbiamo ascoltato politici anche di primissima fila e di altissima responsabilità parlare come se si fossero appena affacciati alla vita pubblica? Quanto volte abbiamo visto ministri con curriculum di governo pluriennali puntare il dito contro problemi nati non certo da maledizioni astrali, ma da cattive scelte di cui essi stessi portano la responsabilità? In più di un’occasione mi è capitato di etichettare come “marziani” quei politici che sembrano appena sbarcati da un altro pianeta e che dovrebbero invece essere consapevoli della propria responsabilità politica o personale rispetto agli stessi problemi che denunciano.
 
La Seconda repubblica finisce dunque senza avere in alcun modo risolto una debolezza strutturale della nostra nazione, ma al contrario consegnando a tutti noi il compito di restituire forza e autorevolezza alla politica e ai suoi strumenti democratici. Quella forza e quell’autorevolezza non potranno essere ritrovate per miracolo, ma saranno il risultato faticoso di un dialogo da ricreare con la società civile italiana e di una nuova fase costituente alla quale tutti dovranno dare il proprio contributo. Il mondo del lavoro insieme all’associazionismo, l’imprenditoria piccola e grande insieme al sindacato, il grande bacino del volontariato accanto al mondo delle religioni e a quello della cultura. Ognuno dei canali che alimentano la vita pubblica italiana avrà il dovere di portare il proprio apporto ad una grande impresa di ricostruzione della legittimità della politica e delle istituzioni democratiche di fronte alla società italiana. E nessuna esclusione potrà essere giustificata, tantomeno se a pretenderla sarà un ceto di professionisti della politica la cui autorevolezza è ormai ai minimi termini. Perché nessun settore della società civile italiana potrà esimersi dal partecipare all’impresa di ritrovare quello spirito di coesione che in passato ha reso l’Italia un grande Paese e che da troppi anni sembra disperso nei rivoli della nostra crisi nazionale.
 
Ricostruire l’Italia? Per nostra fortuna non usciamo da una guerra, ma come in un dopoguerra ci troviamo ad un bivio storico dal quale dipenderà il futuro dei nostri figli. Possiamo scegliere di abbandonarci con rassegnazione ad un destino di declino, dove ci spinge, mese dopo mese, la cronaca sempre più fitta delle malattie italiane. Oppure possiamo assumerci la responsabilità di invertire la rotta per ritrovare il senso di una missione condivisa, prima di tutto dicendo a noi stessi tutta la verità sullo stato della nazione e subito dopo definendo un’agenda minima ma inflessibile dei provvedimenti da prendere con la massima urgenza.
 
È su questo piano che si misurerà la qualità delle classi dirigenti italiane, dalla loro capacità di uscire da una visuale ristretta di interessi particolari per mettersi in gioco collettivamente. Non sarà l’impresa di un uomo solo né di un unico settore sociale, ma dovrà necessariamente essere un traguardo il più ampiamente condiviso. Solo così la nostra democrazia potrà tornare a dotarsi di una politica credibile e autorevole, non più separata dal muro di sfiducia invalicabile che ormai la circonda, ma nuovamente capace di alimentarsi alle correnti più feconde della società italiana. D’altra parte questo è quanto accadde nel secondo dopoguerra, quando una classe dirigente che non era composta da professionisti della politica, ma da esponenti di altissima qualità di tutti i settori della vita associativa, riuscì a restituire all’Italia un futuro di speranza e di crescita economica e civile. Personalmente, sono convinto che il nostro Paese ce la farà. Così come sono convinto che sapremo rispondere a testa alta ai nostri figli e ai nostri nipoti quando ci chiederanno, tra alcuni anni, cosa abbiamo fatto per restituire fiducia all’Italia nel momento in cui sembrava averla perduta.

Una responsabilità al plurale

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