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Cosa è esattamente il modello tedesco o modello renano, di cui tanto si parla, a volte in modo alquanto superficiale? È un modello di politica economica che applica alla realtà tedesca i principi della economia sociale di mercato ovvero della dottrina sociale cristiana.
Al centro c’è una certa idea dell’impresa. L’impresa non è semplicemente una società di capitale volta a massimizzare il profitto dal capitale in essa investito. È al tempo stesso una comunità di persone che in essa lavorano e da essa si attendono la soddisfazione dei loro bisogni fondamentali.
L’impresa, inoltre, è legata ad altre imprese da un sistema di relazioni con fornitori e clienti. Se la impresa viene meno anche altre imprese ne avranno a soffrire. E ne avrà a soffrire il territorio, ne risulterà indebolito, bisognerà assistere i disoccupati e cercare loro nuovi posti di lavoro mentre essi dovranno ridurre i loro consumi e ciò diminuirà le opportunità di successo di tutti gli agenti economici di quella area. L’impresa è dunque inserita in una rete di relazioni, è essa stessa un bene sociale e la società è interessata al suo successo. È per questo che si parla di economia sociale di mercato. Esiste un contesto sociale che è interessato al successo dell’impresa e con essa è solidale.
 
Questa economia solidale è però pur sempre una economia di mercato. Non è lecito sostenere l’impresa in difficoltà alterando le regole del gioco della concorrenza. Il sistema di mercato è superiore ai sistemi socialisti perché la pressione della concorrenza porta ad una continua razionalizzazione che permette di produrre la stessa quantità di beni con un numero inferiore di lavoratori. Per questo il sistema di mercato è sempre minacciato dalla disoccupazione. D’altro canto è proprio in questo modo che la competizione aumenta la ricchezza complessiva. Se si possono produrre gli stessi beni con un numero minore di lavoratori un certo numero di lavoratori verranno messi in libertà, cioè diventeranno disoccupati. Quando saranno occupati di nuovo essi produrranno beni nuovi ed in questo modo faranno aumentare la ricchezza complessiva.
Quando diciamo che alla base della economia sociale di mercato c’è una rete solidale di sostegno all’impresa non diciamo affatto che si possa limitare la concorrenza per sostenere l’impresa in difficoltà. L’impresa va aiutata a stare sul mercato. Questo chiede un contributo da parte di tutti. Gli azionisti devono guardare non al profitto immediato ma a quello di lungo periodo. Questo significa rinunciare a distribuire dividendi elevati per rafforzare matrimonialmente l’impresa e, soprattutto, per investire in ricerca ed innovazione.
 
I sindacati rinunciano esplicitamente ad una visione conflittuale delle relazioni di lavoro a favore di un modello partecipativo. Il lavoratore non si limita ad eseguire le operazioni esplicitamente previste dal mansionario. Egli è interessato al positivo risultato dell’impresa e coopera ad esso investendo, per quanto possibile, la propria creatività e la propria disponibilità nel successo dell’impresa. I lavoratori, inoltre, accettano una politica di moderazione salariale. I salari non possono crescere più della competitività. In cambio i lavoratori hanno il diritto di partecipare alle decisioni che riguardano il futuro dell’impresa e quindi del loro lavoro.
Lo Stato, o comunque l’ente pubblico, contribuisce assicurando una serie di economie esterne all’impresa. Quando l’impresa non è in grado di impiegare utilmente i lavoratori essa deve licenziare. Il lavoratore licenziato non può però essere messo in mezzo a una strada. Lo Stato deve assicurare una indennità di disoccupazione che consente di far fronte ai bisogni essenziali suoi e della sua famiglia. Lo Stato deve inoltre assicurare servizi di orientamento, di formazione per gli adulti e di avviamento al lavoro in modo da poter celermente trovare un nuovo posto di lavoro. Tutto questo deve avvenire a carico della fiscalità generale. I costi, in altre parole, non devono essere scaricati sull’impresa, come avviene in altri Paesi. I sindacati non si ostinano nel difendere posti di lavoro ormai obsoleti e fuori mercato mentre si concentrano sul compito di accompagnare il lavoratore da posto di lavoro a posto di lavoro. Il sistema può dunque in tempo di crisi ristrutturarsi rapidamente adattandosi a nuove configurazioni di mercato.
Lo Stato e i Länder, infine, assicurano alle imprese decisive economie esterne: infrastrutture di qualità, sia materiali che immateriali, formazione professionale (soprattutto attraverso lo strumento dell’apprendistato), scuola ed università di qualità, ricerca scientifica, ecc. Noi possiamo oggi calcolare che la Germania abbia sull’Italia un vantaggio di produttività di circa il 30%. Di questo vantaggio il 5% riflette una maggiore efficienza delle imprese tedesche, il 25% dipende dalla maggiore efficienza dei sistemi pubblici: dalla posta alla scuola alla ricerca alle politiche sociali…
 
Lo Stato, infine, rinuncia alla manipolazione politica della moneta, rinuncia cioè a produrre deficit che portino ad una svalutazione della moneta. Questa è condizione fondamentale per incoraggiare il risparmio ed attirare gli investimenti.
È infine necessario sottolineare un elemento empirico, che appartiene non tanto al modello quanto alla realtà empirica della Germania in cui il modello è stato applicato. Un pilastro del modello è la superiorità della scuola, della formazione professionale e della ricerca scientifica tedesca. Una percentuale straordinariamente alta delle esportazioni tedesche è protetta da brevetto e quindi sottratta alla competizione con i Paesi emergenti. Il sistema funziona perché la sua superiorità tecnologica consente di ottenere sul mercato mondiale le risorse che permettono di finanziare uno Stato sociale generoso.
È imitabile questo modello? Certo che lo è. Esso però richiede, per essere imitato, forti cambiamenti di mentalità e vaste riforme legislative. Per esempio nella scuola è necessaria una svolta che metta in primo piano la necessità di imparare.
Oggi in modo sempre più chiaro la signora Merkel propone il modello tedesco per tutta l’Europa. Io non sono contrario, anzi sono favorevole. Però ripeto anche sempre ai miei amici tedeschi che non si può proporre all’Europa il modello tedesco senza creare le condizioni perché a questo modello l’Europa si adegui. Occorre costruire una strategia della transizione con pazienza e flessibilità, con il metodo del dialogo e della comprensione reciproca.

L'equilibrio fra mercato e società

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