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Dopo la politica, l’economia sottomette a sé anche la religione. Per la Corte europea dei diritti dell’uomo i preti ricevono un salario dalla Curia e, pertanto, sono lavoratori dipendenti. Come tali, hanno diritto al riconoscimento del loro sindacato.
Non entro nel merito della sentenza, che non conosco se non per quanto riportato nell’articolo che posto in calce.
Mi colpiscono i presupposti culturali della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ignorano che quello del prete non è un lavoro, ma una missione – un sacerdotium, appunto – che prevede un salario ma non già come corrispettivo ma come strumento di sostentamento.
Far leva sul salario per ricondurre anche il sacerdozio tra le attività lavorative è emblematico della economicizzazione della vita dell’uomo occidentale.
Solo nella modernità il lavoro è finalizzato al guadagno. Per i Greci, il lavoro assicura un guadagno, che però non ne è mai il motivo ultimo. Oggi invece “qualsiasi cosa facciamo” – scriveva sconsolata Hannah Arendt – “si suppone fatta ‘per guadagnarci da vivere’; tale è il verdetto della società e il numero delle persone, specialmente nelle professioni, che potrebbe contestarlo, è diminuiti rapidamente”. Chi sa come avrebbe commentato questa sentenza…. (aml)
 
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo – che non fa capo all’Unione Europea, ma a un’istituzione diversa e più ampia, il Consiglio d’Europa, il quale comprende anche i Paesi geograficamente europei che non sono nell’Unione – ha reso pubbliche le motivazioni di una sentenza che riguarda la Chiesa Ortodossa, ma che è potenzialmente molto pericolosa per la libertà religiosa.
Nella sentenza Sindicatul Pastorul cel bun c. Roumanie, resa il 31 gennaio scorso, la Corte – che, per intenderci, è lo stesso organo giudicante che nella sentenza sul “caso Lautsi”, poi fortunatamente rovesciata in grado di appello, aveva cercato di vietare i crocifissi nelle scuole italiane – ha preso in esame il caso di un sindacato di sacerdoti ortodossi in Romania, che le autorità romene hanno rifiutato di riconoscere per tre motivi. Il primo è che nel diritto del lavoro romeno i dirigenti, in particolare quelli della funzione pubblica, non sono autorizzati a creare sindacati, e i preti ortodossi sono assimilati a questa categoria. Il secondo è che, in una certa misura, l’ordinamento civile della Romania postcomunista riconosce l’ordinamento canonico della Chiesa Ortodossa, il quale esclude la possibilità che i preti si organizzino in sindacati. Il terzo è che il principio di libertà religiosa deve far prevalere la libertà della Chiesa Ortodossa di organizzarsi come meglio crede rispetto al principio – importante, ma gerarchicamente inferiore alla libertà di religione – della libertà sindacale.
I preti sindacalisti romeni hanno portato il caso di fronte alla Corte di Strasburgo, la quale ha dato loro ragione. Esaminando i tre punti che hanno fondato il rifiuto romeno di riconoscere il sindacato, la Corte ha anzitutto ritenuto che l’assimilazione dei sacerdoti ai dirigenti è controversa e non può essere data per scontata. Già su questo punto, è lecito sollevare qualche perplessità tecnica. Si tratta di una specificità del diritto del lavoro romeno su cui la Corte non è competente a pronunciarsi, salvo il caso di applicazioni palesemente arbitrarie di una legge nazionale, che qui non sembra essersi verificato. Ma è sul secondo e sul terzo punto che la Corte si è avviata su una strada estremamente pericolosa. Quanto ai privilegi della Chiesa Ortodossa riconosciuti dall’ordinamento romeno, la Corte ha affermato che l’ordine pubblico – che comprende la libertà di organizzazione sindacale – prevale su ogni specifico accordo fra lo Stato romeno e qualunque organismo, compreso il Patriarcato ortodosso. Andando poi palesemente oltre le sue competenze, la Corte dichiara pure che «lo statuto del Sindacato [dei preti] non conteneva nulla di contrario alla fede della Chiesa [ortodossa]». Un’affermazione di questo genere presuppone che la Corte sia competente a conoscere che cos’è o non è contrario alla fede del Patriarcato di Romania, il che è palesemente assurdo.
Ma è sul punto della libertà religiosa che la sentenza suscita particolare allarme. I giudici di Strasburgo affermano che i preti ortodossi romeni ricevono un salario dal Patriarcato: dunque sono lavoratori dipendenti. E «la relazione fondata su un contratto di lavoro non può essere “clericalizzata” al punto da sfuggire alle normali regole del diritto civile». In realtà, è vero il contrario. Il sacerdozio non è un semplice lavoro come un altro. Chi sceglie di diventare sacerdote sa bene che questa scelta impone delle rinunce, compresa quella a interagire con il suo “datore di lavoro” – la Chiesa – secondo i normali parametri del diritto che si applica a chi lavora in ufficio o in fabbrica. Come ha osservato Grégor Puppinck, direttore dell’European Centre for Law and Justice, un centro specializzato nella tutela della libertà religiosa che aveva sottoposto alla Corte osservazioni scritte a favore della Romania, l’articolo 11 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo a rigore non crea neppure un diritto illimitato all’esercizio dei diritti dei lavoratori nella forma sindacale consueta. L’essenziale per l’articolo 11 è che i lavoratori abbiano diritto a esprimere le loro rivendicazioni in caso di arbitrio, possibilità che anche i sacerdoti ortodossi romeni possono esercitare con gli strumenti previsti dal loro ordinamento canonico.
Si tratta – ha aggiunto Puppinck – di un passo indietro rispetto alla sentenza d’appello nel caso sul crocifisso in Italia, dov’è stato riconosciuto che non esiste un diritto unico europeo in materia di religione e che la Corte deve riconoscere le specificità nazionali, specie nei casi in cui una religione – il cattolicesimo in Italia, ma anche l’Ortodossia in Romania – dà un contributo particolare all’identità nazionale, che non può non trovare uno speciale riconoscimento giuridico. A volere essere maliziosi, si può aggiungere che la Corte – al di là del caso specifico, e tutto sommato limitato, dei preti ortodossi romeni iscritti a questo sindacato – ha voluto lanciare un messaggio preciso alla Chiesa Cattolica, alle prese con analoghe organizzazioni e sindacati, di cui in genere nega la legittimità, in diversi Paesi europei. Se è così, si tratta di una grave ingerenza nelle vicende interne delle Chiese cristiane, e di un ulteriore passo sulla strada – esplicitamente denunciata da Papa Benedetto XVI – di un diritto europeo che, come vorrebbero la Francia e altri Paesi, considera la libertà religiosa un diritto individuale ma non un diritto delle comunità e delle Chiese.
La sentenza, naturalmente, apre problemi pratici di non facile soluzione. Una volta che, in obbedienza alla sentenza, il sindacato di preti romeno sarà riconosciuto dallo Stato dovrà essere riconosciuto anche dalla Chiesa Ortodossa? Quest’ultima probabilmente risponderà di no, con prevedibile nuovo ricorso dei preti sindacalisti a Strasburgo. Un ginepraio da cui sarà difficile uscire e da cui, insieme con la libertà religiosa, rischierà di uscire sconfitto il buon senso.

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