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Qualcosa si muove intorno a noi al nordest del Paese: il grande freddo della crisi va stemperandosi, gli ammortizzatori sociali hanno contribuito, ma soprattutto la capacità manifatturiera (per produrre beni economici) e la struttura territoriale (per produrre beni relazionali) hanno ripreso a funzionare, e così il Pil sta tornando ai livelli di prima. Per quanto era possibile ognuno ha fatto la sua parte. Anche la Fondazione di Venezia ha stretto i cordoni della borsa, verso i terzi, versi i propri progetti, verso se stessa. Ma non verso il territorio al quale ha dato quanto poteva dare: più progetti che realizzazioni, ma ora i progetti giungono a maturazione, portando nuove iniziative nei settori nei quali – per legge e per statuto – essa opera. Così la capacità realizzativa della Fondazione e delle società o fondazioni strumentali che ha costi-tuito si rivolgono a rispondere ad una richiesta diffusa di interventi nei settori dell’arte, dei beni culturali, dell’istruzione e della formazione, della ricerca scientifica e tecnologica. Ma anche a offrire sostegno ai lavoratori in crisi, in una regione che fatica ad uscire dalla negativa congiuntura economica degli ultimi anni.
 
È difficile riassumere in poche battute l’attività della Fondazione di Venezia. Essa è la continuazione ideale della Cassa di Risparmio di Venezia, istituita con provvedimento del Podestà di Venezia nel 1822. Così come stabilito dalla legge istitutiva, la Fondazione agisce “in rapporto prevalente con il territorio, indirizzando la propria attività esclusivamente nei settori ammessi e operando in via prevalente nei settori rilevanti, assicurando, singolarmente e nel loro insieme, l’equilibrata destinazione delle risorse e dando preferenza ai settori a maggiore rilevanza sociale”. Dall’origine fino a poco tempo fa il pensiero prevalente sulle fondazioni prevedeva che il patrimonio fosse investito al meglio per ottenerne il massimo rendimento, convertibile, una volta coperti i costi e gli oneri generali, in erogazioni contributive verso i propri scopi statutari. Oggi tuttavia è maturato un passo ulteriore che ha portato a considerare la Fondazione come un soggetto abilitato a investire industrialmente per raggiungere il suo scopo di statuto.
 
Dunque non più doni ma investimenti. L’esempio più emblematico che ci riguarda è quello dell’M9, il Museo del Novecento che sorgerà a Mestre. La Fondazione ha acquisito le aree, bandito un concorso internazionale di architettura e ha stanziato i fondi per la sua realizzazione (la conclusione dei lavori è prevista per la fine del 2014). Differente come modalità, ma ugualmente importante per il territorio, il recente stanziamento di 100mila euro a favore del sostegno al reddito dei lavoratori di Porto Marghera e degli occupati nelle aziende della provincia di Venezia colpite dalla crisi (che fa il paio con gli altri 100mila euro destinati all’intervento regionale per il recupero delle attività economiche venete colpite dall’alluvione del novembre scorso). La Fondazione di Venezia non ha la forza economica per un intervento di natura patrimoniale, né ha competenze industriali; tuttavia non può ritenersi estranea alle difficoltà sociali del territorio, le quali – pur non coprendo i settori di statuto che le sono propri (istruzione, ricerca, beni culturali) e nei quali deve operare – hanno comunque un effetto negativo su uno dei principi che la legge affida alle fondazioni di origine bancaria, chiedendo loro di agire per lo “sviluppo economico”.
 
Un ultimo cenno rispetto al rapporto tra fondazione e territorio. La Fondazione di Venezia ha un patrimonio di circa 400 milioni di euro. In Veneto sono presenti tra le più grandi fondazioni del Paese. Da Cariverona (patrimonio contabile attorno ai 5 miliardi di euro) a Cariparo (2,2 miliardi di euro), fino a Cassamarca (circa 900 milioni di euro). Abbiamo in sostanza un consistente sistema di fondazioni di origine bancaria nel Veneto, importante e ben dotato, con un patrimonio che si avvicina ai dieci miliardi di euro. Tuttavia è forse impropria la definizione di sistema: per loro natura le fondazioni sono soggetti isolati, autarchici nelle decisioni e finalizzati ai propri scopi, che possono essere anche assai differenti. In questa dimensione l’emergere di disegni comuni è essenziale, tanto più se coincidono con prospettive e politiche territoriali evidenti. È il caso delle grandi infrastrutture che attraversano e ridisegnano il nostro territorio. Le Fondazioni del Veneto potrebbero, se si mettono insieme, assumersi l’incarico e l’onere di realizzare uno studio di fattibilità sulla Tav in Veneto. Uguale ruolo di supporto può essere svolto nell’ambito della candidatura di Venezia e del nordest a Capitale europea della Cultura 2019. Non è compito nostro fare progetti o sostituirci alla politica, ma abbiamo tutto l’interesse a fare aggregare le persone giuste attorno a progetti che sono coerenti con le esigenze del territorio.
 
Ora è appunto giunto a maturazione anche un altro importante progetto della Fondazione: la comprensione, da parte del territorio, del suo insediamento. Da tempo appariva sconnesso il sistema territoriale delle Province che contengono gli influssi dell’antico ruolo della Venezia insulare. Il policentrismo veneto doveva trovare un punto di aggregazione e di gerarchizzazione del territorio, senza il quale sarebbe rimasto per sempre servente dei luoghi di influenza urbana che l’Italia intorno e l’Europa appena poco più lontana avevano nel frattempo saputo costruire. La Fondazione di Venezia avvertiva il problema e lo ha affrontato nella misura migliore, ma anche massima che è riuscita ad elaborare: sulla sua proposta l’Ocse (il massimo organismo rappresentativo dei Paesi più sviluppati) ha prodotto una ricerca durata un anno e mezzo e alla fine ci ha restituito la nuova lettura di una Venezia inedita: la metropoli capitale di una Euroregione, che travalica i confini nazionali a nordest e che sarà il capoluogo dello sviluppo futuro.

Un volano per i nostri territori

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